Geografia poetica dell’assenza. Poeti italoamericani e l’Italia abbandonata
Questo numero di lettere aperte contempla gli effetti dell’emigrazione di massa dall’Italia all’America, smottamento che ha provocato una multiforme trasformazione del paesaggio culturale del paese. In particolare, questo saggio prende in considerazione un cambiamento nel paesaggio geografico e spirituale: l’apparizione di un gran numero di paesi abbandonati sia fisicamente su colline e in valli dimenticate, che simbolicamente, nelle menti degli italoamericani che lasciarono queste terre.
L’emigrazione fu una delle cause dell’abbandono di più di seimila paesi italiani, i cosiddetti paesi fantasma: semicrollati e silenziosi, abitati solo dal sentimento di ciò che sarebbe potuto essere, ma non è più (Pugliese 2014).[1] Partiti gli abitanti, questi paesi hanno assunto una nuova natura nel mondo dell’immaginario.[2] Sono diventati “luoghi di una poetica” (Prendrag 2014), tra le cuiTali paesaggi misteriosi si rispecchiano nei luoghi densi di immaginazione che i poeti italoamericani sognano e creano da oltre l’oceano, non per semplice vezzo poetico o superficiale fantasia esotica, ma come ricerca di un mito di fondazione che ne determini l’identità. Essi condividono la pena dell’Anguilla di Cesare Pavese, emigrante archetipico alla ricerca delle origini: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” (Pavese 1968: 15). Le radici della popolazione italoamericana affondano nella nebbia. Il viaggio oceanico ha creato una ferita profonda, vissuta con dolore da parte della prima generazione e piano piano suturata dalle generazioni successive, ma mai sanata. La cicatrice del trapianto ha lasciato una zona d’ombra nella creazione identitaria. Per ovviare all’oblio, i nipoti dell’emigranti, in mancanza di reali paesi d’origine, li reinventano a livello di immaginario.
La critica si è già occupata di stabilire un rapporto fra poesia e geografia.[3] Questo saggio tratta però di una geografia immaginata ed intreccia la critica del paesaggio, condensata in immagini fotografiche, con la descrizione poetica. Importanti elementi visivi – i gradini polverizzati, la mancante chiave di volta, il caminetto annerito e spento, la piazza deserta e il campanile muto – spiccano nel loro potere suggestivo e diventano vere e proprie figure retoriche, metonimie dell’identità. Ognuna di esse costituisce un punctum Barthesiano nelle fotografie considerate, che apre un universo di senso, “che sbuca dalla scena, scagliato fuori come una freccia che mi trafigge” (Barthes 1981: 26). I documenti fotografici inseriti in questo articolo sono perciò un indispensabile accompagnamento alle poesie, l’immagine concreta del cronotopo letterario definito da Mikhail Bakhtin. In esse appaiono in tutta la loro potenza visiva, gli indicatori spazio-temporali di temi essenzialmente italoamericani, “fusi in ununicum concreto e attentamente costruito. Come se il tempo s’ispessisse e s’incarnasse, divenendo artisticamente visibile; some se, allo stesso modo, lo spazio si sensibilizzasse rispondendo ai movimenti del tempo, della trama e della storia” (Bakthin 2002: 15).
Partendo da un’importante poesia di John Ciardi, il saggio analizza il tema della patria abbandonata nel lavoro di importanti poeti italoamericani, tutti vincitori del John Ciardi Award for Lifetime Achievement in Poetry. Sono gli abitanti dei paesi abbandonanti della mente, i cittadini che sarebbero potuti essere, figli e figlie di coloro che emigrarono. Nella loro poesia, l’intenso autobiografismo fonde l’elemento del narratore con la figura autoriale che possiede una particolare sensibilità verso la realtà dell’impossibile. La poesia è il medium espressivo più appropriato per recuperare tale geografia del sogno. Nella sua brevità sfuggente e visionaria, essa riflette le linee sfumate delle origini dimenticate, l’incertezza della possibilità, l’attimo pieno di nostalgia. Se, come capita spesso, questi autori non hanno mai messo piede nei villaggi dei loro antenati, li hanno invece frequentemente visitati nel sogno, nei racconti di casa e nella memoria.[4] Come narratori, li continuano a visitare nello spazio effimero dei loro versi. Come afferma Sudip Bose, “un particolare senso di luogo può essere costruito nell’immaginazione anche se non ci sei mai stato.” (Sudip 2002: 14)
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