Geografia poetica dell’assenza. Poeti italoamericani e l’Italia abbandonata
La piazza vuota
Piazza Nicotera è il cuore immobile di Roscigno, paesino in provincia di Salerno (Campania), disertato per i danni e la paura delle frane ed ora cristallizzato nel tempo. È stato usato come set cinematografico risuscitando fantasmi d’altre epoche come i disillusi eroi risorgimentali di Noi credevamo di Mario Martone. La serenità di questa piazza grida assenza: nessuno gode l’ombra fronzuta dell’enorme platano che vi troneggia. La panchina resta vuota. Sulla sinistra, la grande fontana rotonda, costruita per essere usata da molti, è silente. Le casupole circondano in un abbraccio circolare una comunità invisibile, quasi stupite della sua assenza, e le finestre, spalancati occhi ciechi, la piangono.
Piazza Nicotera è la cornice perfetta per una popolazione di fantasmi, di cittadini che avrebbero potuto viverci. Lo spiazzo vuoto contiene quella dimensione della possibilità che colora la poesia dei discendenti degli emigranti. “L’emigrante rincorre sempre l’ombra perduta, tenta di annullare la frattura e le lacerazioni”, scrive Teti. “Egli immagina, pensa, sogna, insegue ogni giorno il doppio rimasto in paese […] anche se non ritroverà mai l’antica ombra” (Teti 2004: 23). Nella poesia Letter to Mother, John Ciardi prende le misure della migrazione che non fu solo un attraversamento dell’oceano, ma una scelta di rotta verso una vita alternative (“Questo viaggio è attraverso le distese longitudini della mente / e le latitudini del sangue. Ho fatto un sestante del mio cuore / ho fissato la mia posizione sul sole”) (Ciardi 1940: 3). In quella piazza, medita Ciardi, “qualcuno potrebbe lì essere nato e crederci” (Fontanella 2012: 298).
La migrazione causa la declinazione condizionale del verbo. Quando Sandra Gilbert s’immagina ragazzina di fronte alla prima casa del padre, è avvolta da una domanda su “cosa potrebbe essere stato ereditato / rimase inesaminato – o immeritato” (Mortola Gilbert 2003: 24) Joseph Luzzi viene schiaffeggiato da quello che sarebbe potuto essere quando attraversa la piazza della cittadina calabrese da dove partirono i genitori, tra gemelli mai conosciuti. Il concetto del gemello separato alla nascita crea la coscienza di un paradosso che sta alla base dell’identità americana, un’identità ossimorica che mai dimentica il proprio doppio.[15] Il poeta Dana Gioia è tormentato dalla presenza del gemello che lo interroga: “L’uomo migliore che sarei potuto essere, / che narra la vita che avrei potuto vivere. / Lui non può capire che triste errore / diede a me la vita ma lasciò lui mai nato” (Gioia 2001: 5).[16] Il flusso del destino venne deviato dall’atto migratorio, come la corrente deviata da un ciotolo:
E se avessimo preso un sentiero diverso un giorno,
se un minimo caso ci avesse spinto altrove
come un ciotolo tirato nel torrente
potrebbe cambiare il flusso un centinaio di miglia a valle?
(Gioia 2001: 68)
Le centinaia di miglia a valle diventano un centinaio d’anni in avanti nella poesia “2085” di Sandra Mortola Gilbert, dov’ella vede nel futuro lontano una possibile declinazione di sé. È una ragazzina dall’origine ignota, incamminata verso un mare aperto, un mare che non le parla:
È il 2085, stai camminando su una strada di sassi
in Sicilia, sei sangue del mio
sangue, una ragazza diciassettenne
[…]
Sei
venuta da New York per ritrovare i perduti avi
o sei sempre stata qui?
[…]
Le mie parole
si fermano sul prato al tuo fianco –
pietre, alberi morti – così come
la terra su cui cammini
rimase dietro di me, monumento sconosciuto.
Ed ora la strada si srotola e scintilla di fronte
come la storia che nessuna di noi due capisce.
Ti porta
verso il mare, verso
l’Egeo inarticolato.
(Mortola Gilbert 2003: 35s.)
Forse il ritratto più toccante di un cittadino mai nato è tracciato dai versi del poeta Felix Stefanile. Nato a Long Island nel 1920, egli titola un’intera raccolta “Paese dell’assenza” (“Country of Absence”) e su di essa medita. Pervaso da un forte senso di pietas, rende onore al patriarca della famiglia, il nonno Antonio, morto a Nola, in provincia di Napoli, nel 1953. Lo sfondo della sua poesia è una terra di rovine e deserto: “Tu remota ombra, che camminasti tra le macerie / come un buon pastore, tra pecore di pietra. […] / O re antico e gentile, / spirito grande a contenere grandi addii, / il vento non è che una lista dei nostri nomi / che si spargono come semi spinti da un vento arcaico” (Stefanile 2000: 26). Nel componimento “In That Far Country,” Stefanile descrive il passato in forma di paese senza storia, che parla allo straniero tramite geroglifici incomprensibili. In tale paesaggio, la presenza del poeta si realizza come un’assenza che dev’essere accettata e che, comunque, non duole più:
In quel paese lontano formato da golfi e baie
e nuvole che galleggiano come cigni attraverso il cielo,
dove nulla accade di cui la storia possa prender nota né per lode
né per biasimo, perché non c’è storia,
leggo la calligrafia del sole su un muro
di geroglifici d’edera, scorgo un paese
dove le stagioni ritornano e cadono con grazia
come in un santuario tutto mio.
La lingua che parlano è greco per me
in quella terra immobile. Solo i bambini corrono,
le donne cuciono le loro reti vicino al mare;
i vecchi succhiano le loro pipe sotto il sole;
e la gente si riunisce nella piazza del paese
a chiedere di me, perché io non sia lì.
(Stefanile 2000: 35)
La piazza del paese che si domanda dove siano finiti i suoi abitanti è l’unica patria per questi poeti d’emigrazione. Essi ormai conoscono più l’Italia letteraria che l’Italia dei loro avi, più l’Italia dei libri di storia che la microstoria dei filò. I contorni della loro Italia restano intuitive e sinestetici, come li traccia Stefanile nella poesia “Malespina,” il cui campanile chiude questo capitolo ed apre il successivo, con lugubri rintocchi:
Le città di Nola e Palma:
Nola e Palma,
città come grappoli al sole,
scattano nel mio pensiero
con un suono improvviso e verde,
mandolino,
nella brezza estiva-
ma non le ho mai viste,
nessuna delle due.
[…]
Ma è il luogo
dove non sono mai stato
che piange con rintocco di campana
le battaglie vinte dall’uomo.
(Stefanile 1956: 42s.)
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