Geografia poetica dell’assenza. Poeti italoamericani e l’Italia abbandonata
Il paese sommerso
Questo campanile appartiene al centro medievale di Curon Vecchia in Trentino Alto Adige, contrada abbandonata forzatamente nell’ultimo secolo per permettere la formazione di un lago artificiale. La vecchia cartolina rivela il paese com’era, con la sua chiesa parrocchiale, i tetti spioventi, i sentieri e gli steccati. La seconda foto mostra la surreale immagine del paese oggi: il campanile solitario (segno e simbolo dell’identità comunitaria italiana) assurdamente affiorante dalle acque immobili del lago. La vita che vi ferveva intorno è scomparsa, le tracce degli abitanti inabissate, la memoria cancellata. Solo l’orologio sbiadito resta a testimoniare l’esistenza di un passato trascorso. Immagine più suggestiva non potrebbe riassumere il tema di quest’articolo, nemmeno a inventarla. L’Italia abbandonata, sommersa nella coscienza, appare qui in tutta la sua bizzarra, inquietante malinconia.
Vito Teti conclude il suo viaggio tra gli spettri dei villaggi calabresi con la scoperta che le terre abbandonate vivono una nuova vita nell’immaginazione. Egli rivela ai lettori:
Voi immaginerete, e avete tante ragioni, anch’io l’ho pensato per lungo tempo, che i paesi abbandonati, i paesi morti, i ruderi non vivono più. E vi sbagliate, come mi sbagliavo io. I luoghi abbandonati continuano a vivere nella memoria e nella fantasia, nell’immaginazione e nei racconti. Continuano ad inquietare e ad attirare. (Teti 2004: 176)[17]
Nei figli degli emigranti il dolore dello strappo è stato lenito dal tempo. Le ferite dell’anima si sono cicatrizzate così come i rampicanti han consolato le crepe e la montagna si è ripresa le pietre.[18] Una volta attraversato dolorosamente l’oceano, le acque della coscienza si son rifatte tranquille ed immobili.
Le parole dei poeti sigillano tale pacificazione, riuscendo a farsi poesia e risanando i muri abbandonati. A volte anche fuori di metafora, come nel caso di una poesia scritta con una bomboletta sul muro di una casa vuota di Erto, in Trentino. Il paese fu travolto dalla piena nella notte del 9 Ottobre 1963, quando le acque trattenute dalla diga del Vajont tracimarono in un’immensa ondata. La poesia spontanea porta la firma M.C. (Mauro Corona, poeta del luogo) e la data del 26 maggio 2007:
Tendo l’orecchio
e sento il passo
dei ricordi della perduta
casa solo una
pietra cerco.[19]
Camminando per la strada sconnessa di un paese abbandonato, la consolazione dell’arte giunge improvvisa su di un muro. L’uso involontario dell’enjambment (dovuto alle dimensioni del muro stesso) spezza sintatticamente la frase poetica, il cui scivolamento verticale ricrea visivamente la maledizione della frana di mattoni e sassi. La coppia bisillabica nel verso finale imprime la nuda impronta del sentimento di perdita, “pietra cerco”. Questi versi in vernice a spruzzo su un muro in rovina sembrano la sintesi dell’operazione di guarigione svolta dai poeti italoamericani, nei riguardi del trauma migratorio che segna la loro storia familiare. La loro ricerca si svolge tra le pietre, i frammenti e le rovine a volte sommerse dalle acque.
La geografia dell’Italia abbandonata resiste nella memoria come necessario mito di fondazione. La si immagina ancora lì, nascosta per sempre, dietro la curva presa inaspettatamente dal destino. Se ne disegna la mappa intorno ad un campanile solitario. La si reinventa alla luce dei lampi di poesia.
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