L’autonomizzazione del campo letterario italiano nel primo Novecento: i dintorni della «Voce»
La letteratura di consumo in due inchieste a cavallo del ’900
Due indagini sulla produzione culturale svoltesi a cavallo del ’900 – la prima, Alla scoperta dei letterati, è un’inchiesta giornalistica condotta da un giovane scrittore, Ugo Ojetti, nel 1895; l’altra, I libri più letti dal popolo italiano, una ricerca sui lettori promossa dalla Società bibliografica italiana nel 1906 – possono fornirci qualche indizio sullo stato di autonomizzazione del campo letterario italiano nel momento in cui i nuovi entranti che ci interessano fanno il loro debutto. La stessa esistenza di inchieste di questo tipo costituisce un indizio interessante: segnala come a cavallo del secolo fosse diffusa la percezione di una trasformazione nei modi della produzione e fruizione dei prodotti culturali, che si sentiva la necessità di mappare e analizzare.
L’inchiesta più recente, quella del 1906 promossa dalla Società Bibliografica Italiana, è un tentativo di tracciare un panorama dell’editoria dal punto di vista di quella che oggi chiameremmo “domanda del mercato”. In effetti, dall’inchiesta emerge chiaramente come esistesse già all’inizio del secolo quel tipo di produzione che oggi chiamiamo commerciale – e che allora si definiva “letteratura amena”. Dieci anni prima, anche l’inchiesta di Ojetti registrava la presenza di un ambito di produzione letteraria rivolto al mercato, che però non era avvertita come una minaccia per la purezza dell’arte, anzi: secondo D’Annunzio – lo scrittore che chiude l’inchiesta di Ojetti con un’intervista di una trentina di pagine – la crescita del mercato librario è una prova del roseo futuro dell’arte.
Io noto un fenomeno volgare. L’Europa è inondata di quella letteratura che si suol chiamare amena. […] Il commercio della prosa narrativa non era mai giunto a un tal grado d’attività. […] Ne traggo per conseguenza che la letteratura contro ogni profezia funebre è destinata nel prossimo avvenire a uno straordinario sviluppo.
(Ojetti 1895, 315 e 318)
L’Inchiesta del 1906 precisa questo quadro. All’inizio del Novecento (come ancora oggi) la domanda letteraria degli italiani è soddisfatta soprattutto dalle importazioni: la letteratura di consumo è soprattutto di origine straniera, in particolare francese (anche le traduzioni di opere provenienti da altre aree linguistiche sono spesso mediate da questa lingua), benché sia già apparso il primo best-seller italiano, Cuore di De Amicis, che tra il 1884 e il 1906 ha raggiunto la cifra record di 330mila copie vendute, senza contare le edizioni illustrate.
Un’eteronomia non economica
Una risposta di Emilio Treves, editore di De Amicis e titolare all’epoca della maggiore impresa italiana del settore, ci può aiutare a capire perché, stante lo sviluppo già notevole di una produzione letteraria commerciale, un autore come d’Annunzio potesse non avvertirne la minaccia:
Perché un libro possa avere una grande simpatia bisogna che non sia palesemente immorale. […] Più che del valore letterario gran parte dei lettori si preoccupa ancora della tesi di un libro. […] Il vero giudizio estetico manca completamente al grosso pubblico dei lettori e per lo più tra parecchi romanzi di uno stesso scrittore sceglie e preferisce quello artisticamente meno buono.
(Società Bibliografica 1906, 19)
Nel 1906 l’eteronomia economica, la pressione del mercato, non era ancora quella più rilevante: Treves testimonia di uno stato del campo in cui i criteri di valutazione eteronomi più pericolosi per un’elaborazione e ricezione autonome delle opere letterarie erano ancora di tipo etico o morale.
E infatti, qualche anno più tardi, gli esponenti dell’avanguardia fiorentina dovranno confrontarsi a più riprese contro questa forma di eteronomia: oltre al processo a Prezzolini del 1911, che vede schierati in sua difesa i più importanti intellettuali del tempo, è significativo un altro processo, di due anni successivo. Quando Papini, nel 1913, viene denunciato per aver pubblicato su «Lacerba» uno scandaloso articolo su Gesù Cristo, Prezzolini interviene sulla «Voce» a difesa dell’amico: non delle sue tesi, non del modo in cui sono espresse – siamo anzi in un momento in cui «Lacerba» è in conflitto aperto con «La Voce» –, ma contro l’ingerenza di un potere e di una logica esterne che pretendono di aver giurisdizione in campo letterario e intellettuale. L’obiettivo della lettera aperta di Prezzolini non è quello di difendere Papini; piuttosto, quello di sottrarlo ai magistrati civili per metterlo davanti ai suoi veri giudici: i suoi pari, i colleghi scrittori.
Nello stesso modo col quale ho voluto indicare il dissenso da l’indirizzo generale della vostra Lacerba, oggi, che per suggerimento d’un ignobile sguattero del giornalismo, il procuratore del Re ti sottomette a processo per un tuo articolo, come cittadino e come scrittore dico che mi sento offeso nel principale dei diritti, la libertà di pensare. […] Per conto mio che pur non approvo il tuo scritto, sento maggiormente l’offesa, perché vedo sottratto alla mia giurisdizione, l’unica, giusta e legittima, d’uomo di pensiero e di scrittore, quello che è, anche per me, un delitto, ma non da giudice o da giurati: un delitto contro la storia e contro l’arte.
(Prezzolini 1913)
Secondo Prezzolini, dunque, nel processo a Papini non è in gioco tanto la libertà di espressione, quanto l’autonomia di valore e di giudizio dei campi specializzati nella produzione della letteratura, dell’arte e del pensiero.
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