In principio era il Verbo. E alla fine? George Steiner e la crisi dell’umanesimo
Dopo l’umanesimo
Nella fase di dissoluzione delle forme concettuali classiche di organizzazione del sapere, lo statuto aperto e provvisorio del libro si espone agli attraversamenti piú arbitrari, messi in moto dalle letture post-strutturaliste e decostruzioniste. La differenza tra testo e commento, tra poesia e ‘spiegazione’, si annulla in una “intertestualità conglobante” (1997b, 36). L’oggetto del commento non è che un pre-testo per la produzione di una nuova porzione di écriture. L’intenzione del testo non può essere ridotta alle intenzioni di un soggetto, la cui consistenza è evaporata in “una specie di nube di Magellano fatta di energie interattive e mutevoli, di introspezioni parziali, momenti di coscienza compatta, qualcosa di mobile, instabile, in qualche modo, intorno a una zona centrale ancora meno definita, a quella specie di buco nero che viene chiamato subconscio, inconscio o preconscio.” (1997b, 37). Oltre il confine dell’univocità del senso si apre la distesa delle interpretazioni infinite, delle catene paraetimologiche, del puro godimento del funzionamento della macchina del linguaggio. Steiner si ferma sul bordo di questo deserto, confessando comunque di non intravedere “nessuna adeguata confutazione logica o epistemologica della semiotica decostruttiva.” (1997b, 38). Afferma la necessità di opporre alla deriva una volontà giudicante, un buon senso della cultura che prolunga nel giudizio la consapevolezza della tradizione. Un postulato di esistenza del significato, che autorizzi a leggere come se la reperibilità del senso fosse garantita. Una “scommessa cartesiano-kantiana”, un “salto nel significato” che, proprio come la scommessa pascaliana non placa l’inquietudine della domanda.[31] La petizione di principio dell’esistenza del valore è una risposta esiziale all’incombenza di una trasformazione paradigmatica. Nella quale tutti i criteri di produzione e comprensione del linguaggio stanno per essere riformulati, in stretta connessione con la riorganizzazione formale e concettuale dei testi abilitata dai cambiamenti tecnologici.[32] È una risposta debole, che tenta di riattivare le coordinate del sistema umanistico dei saperi, non a caso evocandone due stelle polari, Descartes e Kant, ma da una posizione che sosta al di qua della mutazione, che segna, senza varcarlo, il limite dell’archivio culturale occidentale e della sua validità. La risposta di Steiner alla crisi dell’umanesimo è inadeguata perché si serve degli stessi concetti umanistici dei quali ha descritto cosí lucidamente lo stato di sofferenza. Ma, come ha scritto Francis Ponge nel Parti pris des choses, non si esce dall’albero con mezzi da albero.
Steiner scrive incessantemente il racconto della crisi del significato, incardinata su una piú generale crisi del linguaggio che minaccia i fondamenti stessi della cultura umanistica. La narrazione della fine, il tentativo estremo di raccogliere l’eco ultima di una civiltà, è la sostanza di tutti i saggi di Steiner. La cui insistenza finisce col fondare una discorsività ritornante, e perfino ripetitiva. Alla figura del critico si sovrappone il personaggio del testimone, che si fa custode delle ultime tracce di una civiltà minacciata dalla dispersione e dall’oblio. La ridondanza anche editoriale del discorso di Steiner sembra illustrare gli stessi processi di proliferazione ed ecolalia della parola secondaria denunciati nei suoi saggi. Il critico e le sue grandi sintesi pensate per trasferire un patrimonio culturale in corso di trascrizione entrano nell’ingranaggio della ripetizione e della diffrazione. L’ostinata ricerca di un residuo di autencità rischia di essere invalidata dalla sua stessa insistenza, mentre l’autorevolezza feticizzata, esattamente come previsto da Steiner, rischia il depotenziamento. La forza progressivamente attenuata del discorso di Steiner è un grafico esatto della crisi della cultura umanistica, dell’esaurisi della validità delle sue strategie di comprensione. La ‘presa della parola’ umanistica è fragile ed esposta alla sopraffazione dell’insieme dei discorsi che la fronteggiano, la sovrastano, nel migliore dei casi se ne appropriano.
Solo nuove forme di ibridazione, e una ridiscussione profonda dei suoi fondamenti, possono riconsegnare alla cultura umanistica, alla critica e alla letteratura, un ruolo rilevante nel sistema dei saperi. Si tratta di affrontare e comprendere una trasformazione radicale che insieme ai dispositivi di apprendimento e di trasmissione della conoscenza sta modificando gli schemi cognitivi degli individui. Una vera e propria mutazione, che è stata descritta e analizzata da prospettive diverse, su una scala che va dalla fenomenologia dei ‘barbari’ (raccontata con strumenti e movenze ‘pop’ da Alessandro Baricco 2008, ma anche, a un livello di maggiore complessità, dal sociologo Alberto Abruzzese[33] 2011) fino alle scoperte sul funzionamento delle strutture mentali che provengono dalle neuroscienze.[34] Il compito di chi intende raccogliere l’eredità dell’umanesimo è quello di scrivere una nuova antropologia, un nuovo discorso sull’uomo, che possa riconoscere come esaurite le potenzialità produttive dell’umanesimo classico. E che possa anche ricostruire come, nelle loro contiguità con i sistemi di potere, e nella loro funzione di partizione e controllo, finalizzata a una distribuzione ineguale e asimmetrica del capitale culturale, le strutture concettuali dell’umanesimo siano state complici delle dialettiche bloccate della modernità, e per questo responsabili della propria disattivazione. È una consapevolezza che agisce anche in Steiner, quando sottolinea come nel Novecento il culmine dell’orrore, il nazismo e la sua ‘soluzione finale’, sia scaturito dal culmine della ‘civilizzazione’.[35]
La società ‘nomade’ delle reti e della deterritorializzazione permanente sta spazzando via le strutture sociali della modernità e i suoi dispositivi di sapere. Anziché tentare una impossibile conservazione degli istituti che hanno educato l’Occidente, la sola possibilità per l’umanità di continuare a pensare se stessa e di prolungare il significato delle proprie pratiche simboliche (inclusa la letteratura) passa attraverso la capacità di comprendere le strategie di senso attuate dai ‘barbari’ che attraversano e saccheggiano il paesaggio culturale. I barbari acquistano in velocità e vastità di attraversamento delle superfici quello che perdono in profondità. E dove sembra che stiano distruggendo e desertificando, in realtà stanno abitando in modo del tutto diverso. Quando parlano, sembra che stiano storpiando la lingua conosciuta: invece ne stanno sillabando una del tutto nuova, che aspetta ancora di essere grammaticalizzata. Molti dei saperi che hanno caratterizzato l’affermarsi della civiltà occidentale saranno irrimediabilmente perduti, lasciando posto ad altre configurazioni della conoscenza, fondate sulle pratiche e sui linguaggi che in questo momento sembrano agenti della distruzione (Simone 2006). Soltanto accettando che tutto quello che sappiamo non esiste piú possiamo continuare a provare a leggere il mondo e a costruire nuove modalità dell’interpretazione.
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