In principio era il Verbo. E alla fine? George Steiner e la crisi dell’umanesimo
La fuga dalla parola
La crisi del dicibile dovuta ai traumi storici e cognitivi che si sono prodotti nel corso del Novecento viene elaborata dalla letteratura attraverso una strategia di sottrazione che Steiner descrive come una fuga dalla parola, legata anche alla ‘scoperta’ filosofica di una dimensione della realtà che comincia e si dispiega fuori dal dominio del linguaggio verbale, ed entra in contatto solo in modo conflittuale con i processi di ‘trascrizione’. Nel contesto diffuso di una espressività ‘informale’, aniconica e non figurativa, e di una complessiva disumanizzazione delle pratiche simboliche,[12] anche le pretese scientifiche avanzate dalle discipline umanistiche sono da considerare “un errore della forma imitativa”, che nasconde il desiderio di una ritirata dal linguaggio, da compiere attraverso l’adozione di modelli astratti ad alto quoziente di formalizzazione logico-matematica. Lo sforzo estremo e paradossale della parola novecentesca è quello di sondare l’esterno del linguaggio: “il silenzio, che in ogni punto circonda il discorso nudo, sembra, grazie alla forza di penetrazione di Wittgenstein, piú una finestra che un muro. In Wittgenstein, come in certi poeti, noi guardiamo fuori dal linguaggio non nelle tenebre ma nella luce.” (1972c, 37).
La sfiducia nelle capacità di concettualizzazione del linguaggio verbale è comune ai diversi ambiti espressivi: l’arte figurativa contemporanea sfugge ai suoi possibili equivalenti linguistici e complica il rapporto della parola con l’immagine, mentre la musica, costituzionalmente non verbale, si allontana, con le sue declinazioni concrete e post-tonali, dalla possibilità di essere de-scritta. Il Novecento, agli occhi di Steiner, restituisce l’immagine di un mondo che si sta “sottraendo alla presa comunicativa della parola”(1972c, 41), tanto da rendere plausibile l’ipotesi di una civiltà post-verbale: “può darsi che la prossima epoca non si esprima in parole... per nulla, giacché può darsi che la prossima epoca non sia letterata in nessuno dei sensi che noi intendiamo o che gli ultimi tremila anni hanno inteso.” (1972c, 52).
Seppure i fenomeni pervasivi di verbalizzazione di ritorno indotti dalle recentissime tecnologie apparentemente smentiscono l’idea di una scomparsa della parola, corretta è l’intuizione che tutte le modalità della literacy tradizionale sono state travolte. È proprio il fatto che il mondo sia costantemente, quotidianamente impegnato a scriversi a richiedere una ridefinizione integrale dei paradigmi dell’alfabetizzazione classica. La scrittura permanente nella quale l’umanità è stata costretta dalla personalizzazione dei media è una pratica continua e irriflessa, una protesi cognitiva che aderisce direttamente al corpo, un’estensione immediata delle facoltà comunicative, che non avviene piú in una dimensione separata, in luoghi e momenti appositamente deputati all’attività di elaborazione del pensiero. La scrittura continua dei media digitali è sempre in pubblico, è pensiero comunicante, è una forma di concettualizzazione live, in presa diretta, senza dilazioni, senza possibilità di differimento e di ri-pensamento. La scrittura non costituisce piú un filtro, un luogo di ricomposizione delle esperienze e di decantazione delle acquisizioni culturali; è un’operazione davvero di grado zero, che elude il problema dello stile e dell’organizzazione formale, risolti nell’unica esigenza cui si attribuisce valore: l’immediatezza.
Una massa di ‘cose scritte’, quindi, preme sui domini dell’alfabetizzazione tradizionale: la cultura fondata sui tempi lenti della scrittura individuale e privata è costretta a confrontarsi con le interferenze, le deformazioni, le sincopi prodotte dalla verbalizzazione diffusa. Le pratiche dell’interpretazione sono disorientate da una velocità che le scavalca: bruciando tutte le mediazioni, la scrittura continua e compresente sopprime il tempo sempre ‘intermedio’ e differito nel quale può esercitarsi la critica, elimina l’interruzione del flusso necessaria all’atto di lettura.[13] Gli strumenti ermeneutici costruiti dalla tradizione umanistica sono stati disattivati da una trasformazione che non è soltanto un’intensificazione dei processi linguistici conosciuti, ma un mutamento di scala del paradigma comunicativo. Non stanno semplicemente nascendo nuovi linguaggi, è la modalità stessa dell’interazione umana che cambia radicalmente. È come se l’umanità avesse infranto per la seconda volta il “grande silenzio della materia”,[14] e stesse costruendo un’evoluzione ulteriore del proprio apparato espressivo. Come quando i cambiamenti morfologici dell’organismo hanno permesso la nascita dell’apparato fonatorio, la cultura umana si trova all’alba di una inaudita e imprevedibile ‘presa della parola’.
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