Il Wilhelm Meister della «Voce» nel cantiere del romanzo italiano
2. Il Meister di Slataper e Prezzolini
Prima dell'edizione Laterza curata da Spaini e Pisaneschi, il Wilhelm Meister è noto in Italia principalmente attraverso le traduzioni francesi, a cui va aggiunta una traduzione italiana derivata dal francese e assai lontana dall'originale goethiano [5]. La vicenda del giovane borghese che arriva a conquistarsi un posto nel mondo, dopo lunghe peregrinazioni fra teatri e amori delusi, è comunque ben presente agli intellettuali italiani d'inizio Novecento: lo testimonia Papini, che nel 1908, a proposito di Un uomo finito, confida a Boine di aver appena cominciato a «scrivere una specie di Wilhelm Meister tratto dalla mia vita» (Papini 1908, p. 43).
A far nascere nei vociani un interesse più concreto per quest'opera – interesse che sfocerà poi nel progetto di traduzione – è probabilmente, come spesso accade, un fatto contingente. Nel 1910, infatti, il romanzo goethiano torna di colpo all'onore delle cronache con la scoperta, in Svizzera, della Missione teatrale di Wilhelm Meister [Wilhelm Meisters Theatralische Sendung], ovvero la stesura originaria dei primi sei libri dei Lehrjahre, composti da Goethe a Weimar tra il 1777 e il 1785. L'opera, da subito indicata anche con il titolo di Urmeister, era considerata perduta e le scarse notizie intorno ad essa lasciavano appena intuire che aveva come tema cardine la fondazione del teatro nazionale in Germania.
Scipio Slataper riporta la notizia del ritrovamento sul Bollettino bibliografico della «Voce» del 28 dicembre 1911, definendo l'opera «un magnifico documento dell'anima passionale nient'affatto “padrona” del giovane Goethe» (Slataper 1956, p. 254). La Theatralische Sendung, testimoniando la fase iniziale del suo percorso artistico, ci permette di comprenderne lo sviluppo, evitando «il solito processo di canonizzazione ab inizio» (ibid., p. 254) che secondo Slataper ha inevitabilmente luogo quando si vuole proiettare il valore di un autore anche sulle sue creazioni giovanili. La grandezza di Goethe, invece, si mostra proprio in questa capacità di continuo superamento di sé, superamento che sa conservare però gli elementi più vitali, e persino infantili, della giovinezza.
Eppure l'evoluzione che porta Goethe a riscrivere l'Urmeister a distanza di nove anni, tra il 1794 e il 1796, non viene compresa a pieno neanche dai suoi amici più intimi: «A quasi tutti gli amici di G.», nota Slataper «esso [l'Urmeister] piaceva di più che i libri corrispondenti della seconda versione» (ibid., p. 255). Nei Lehrjare lo scrittore è infatti ormai entrato in una fase più matura della sua attività artistica, e non può nascondere il suo giudizio negativo, seppure affettuoso, verso il giovane Wilhelm e il mondo dei teatranti «pupattoli pieni di nervi, d'ignoranza e di fintume». Tuttavia il poeta è indulgente con loro: «La sua ragione è ormai già fuori di questi sentimenti; la sua sana mente ormai condanna la pura passionalità – ma quei sentimenti e quella passionalità sono ancora i suoi. È stupido – ma è bello vivere così» (ibid., p. 257-258). Goethe resta dunque capace di comprendere tanto la sentimentalità dei Werther e quanto il bisogno di azione concreta dei Wilhelm, ed è appunto per questo che la scoperta dell'Urmeister
ha un'importanza capitale nella storia dello sviluppo, e, in generale, per la comprensione dello spirito di Goethe […]. Quando si pensa a Goethe si dimentica completamente la sua grandezza drammatica. Si dimentica il giovane wertheriano che s'assoggetta alle cure di stato; si dimentica sopratutto il poeta che ha finalmente trovato sé stesso, che è arrivato alla sua meta, e s'accorge che proprio il suo massimo lascia freddi quasi tutti gli amici.
(ibid., p. 258)
Il concetto di sviluppo, su cui Slataper insiste nell'articolo e che tornerà nel titolo della sua tesi di laurea su Ibsen[6] (cfr. Slataper 1912), diventa cruciale nella riflessione collettiva dei vociani, che negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale cercano con urgenza crescente il modo di tradurre l'attività letteraria in una pratica capace di agire sulla realtà, di modificare il corso delle cose.
Non è strano, dunque, che il progetto di tradurre i Lehrjahre venga messo in moto da Prezzolini, che all'inizio degli anni dieci ha già dismesso le grandi aspirazioni artistiche per diventare «un utile cittadino del mondo» (Spaini 1963, pp. 149). Spaini ricorda la “scoperta” di Wilhelm Meister nell'Autoritratto triestino, sottolineando come Prezzolini se ne fosse servito per demolire la sua infatuazione giovanile per Werther:
per smontare il mio Werther, Prezzolini mi citò Goethe: «Voi entusiasti, voi sentimentali, mi sembrate i ragazzi che gettano pietre nel ruscello dietro casa per farlo spumeggiare e immaginarsi che sia un grande fiume». Sono le parole con cui l'amico Werner smonta gli entusiasmi di Wilhelm; e sono le parole che Wilhelm, alla fine delle sue peripezie, ripete a se stesso, quando rinuncia a tutte le ubbie e si preoccupa di divenire solo un utile membro della società umana, un bravo chirurgo, professione meno splendida di quella dell'attore — ma piuttosto che interpretare in modo mediocre la parte di Amleto è certo meglio salvare una vita umana. Cosi scopersi questo romanzo, il Meister di Goethe, di cui sapevo solo che alla sua pubblicazione i giovani ardenti della Scuola Romantica l'avevano giudicato «troppo prosaico e moderno»
(Spaini 1963, pp. 155-156).
Rinunciare alle ubbie romantiche e diventare «un utile membro della società umana»: è qui, per Prezzolini, che Wilhelm supera Werther, proponendo ai suoi lettori un'immagine finalmente costruttiva, realistica, del ruolo che l'uomo può aspirare ad assumere nella società moderna. La vocazione pragmatica, l'impulso all'azione che accomunava Prezzolini, Spaini, Slataper e in generale tutti i collaboratori della “prima” Voce, trova nel personaggio di Wilhelm Meister una potente rappresentazione artistica, nella quale lo sviluppo dell'anima individuale è tutt'uno con la possibilità effettiva di trovare il proprio posto nel mondo.
Naturalmente per i vociani il Wilhelm Meister non è interessante in quanto romanzo, ma semmai nonostante sia un romanzo: è lo svolgimento spirituale di un'anima, la geistige Entwicklung di Wilhelm ad attrarli [7] – lo “sviluppo”, appunto – in piena sintonia con quella propensione alla verità autobiografica che, scriverà Prezzolini, era assai più del frammentismo il vero filo conduttore dell'attività della «Voce» (Debenedetti 1971, p. 48). Questa attenzione all'esperienza interiore del personaggio, tuttavia, assumerà una sfumatura lievemente diversa, molto meno astratta, nel momento in cui il testo entra nella fase materiale della traduzione, e per di più nelle mani di due traduttori come Spaini e Pisaneschi che nel frattempo sono diventati allievi di Borgese a Roma e che stanno evidentemente sviluppando una sensibilità del tutto nuova al problema “romanzo”.
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