Il Wilhelm Meister della «Voce» nel cantiere del romanzo italiano
1. La pregiudiziale antiromanzesca e il ruolo della «Voce»
Ad affermare che nel primo ventennio del Novecento la cultura italiana sia caratterizzata da una certa «sordità al genere racconto e romanzo» è Giacomo Debenedetti (Debenedetti 1971, p. 25), che colloca la rivalutazione del romanzo – inteso come genere letterario prestigioso e non come «letteratura amena» – nei pieni anni venti: da un lato per l'attività di Giuseppe Antonio Borgese, che a favore del romanzo si muove in simultanea sul versante creativo (Rubé, 1921) e su quello critico (Tempo di edificare, 1923); dall'altro per la consacrazione nel canone di romanzieri italiani come Verga, già noto ma poco popolare tra i letterati, o Svevo, che esplode come caso letterario solo nel 1925. Se il panorama letterario italiano d'inizio secolo era fortemente condizionato da una pregiudiziale antiromanzesca [2], è pur vero però che anche in questa fase nessuno «aveva smesso di frequentare i grandi romanzi russi, francesi e […] inglesi» (ibid., p. 13). È infatti per mezzo della letteratura straniera tradotta che si avvia la riscoperta del romanzo: lo stesso Borgese, se si schiera in suo favore dal 1921 in poi, di fatto ne ha preparato la strada già dal decennio precedente con la sua opera di mediatore editoriale. Fin dal 1912 dirige la collana Antichi e Moderni di Carabba, nella quale escono opere come La figlia del capitano di Puškin o l'Enrico d'Ofterdingen di Novalis, e in cui si anticipa il rinnovamento del canone ottocentesco che Borgese sancirà negli anni trenta con la Biblioteca Romantica di Mondadori.
Parlare di letteratura in traduzione, in casi come questo, implica l'esistenza di un processo complessivo di importazione (cfr. Wilfert 2002, p. 34), di un insieme di scelte editoriali che hanno la loro ragion d'essere nel campo letterario d'arrivo. I romanzi stranieri, in altre parole, arrivano in Italia perché già c'è un interesse, un conflitto all'interno del quale possono essere proficuamente impiegati. Ma, a parte Borgese, chi in Italia aveva interesse a sollecitare una riflessione sul romanzo? I pochi che si erano avventurati per questa strada avevano dovuto fare i conti con Croce, dichiaratamente ostile alla riflessione sul romanzo per via della sua programmatica opposizione all'esistenza dei generi letterari in quanto tali: basti vedere, a questo proposito, le stroncature che riserva ai saggi di Adolfo Albertazzi e Giuseppe Spencer Kennard, pubblicati nel 1904 e da lui recensiti su «La Critica» [3].
Su questo tema, per quanto non compattamente [4], seguono la lezione crociana anche i letterati della «Voce», che nel ritenere la vera poesia qualcosa di trasversale ai generi letterari contribuiscono a fare fuoco di sbarramento contro il romanzo. L'interdizione con cui lo colpiscono ha una duplice natura, formale ed etico-contenutistica: sul versante estetico, infatti, i vociani prediligono le forme brevi, in particolare il frammento; su quello dei contenuti esortano alla ricerca della “verità”, cosa che porta gli autori a orientarsi verso forme narrative come il diario o l'autobiografia, a scapito delle narrazioni finzionali. Se il primo elemento non può che essere d'ostacolo allo sviluppo del romanzo (poiché il frammento si contrappone per sua natura alle strutture architettoniche che, spiegherà Borgese, sono indispensabili alla costruzione dell'edificio narrativo); il secondo – all'apparenza più pernicioso ancora, in quanto ostile all'invenzione – rivela però dal punto di vista tecnico un'ambigua solidarietà con la narrazione romanzesca. Vera o inventata che sia, una storia che prevede uno sviluppo (termine chiave su cui tornerò) obbliga infatti a fare i conti con problemi tecnici propri del romanzo – trame, personaggi che si trasformano, dialoghi: e partendo da qui possiamo comprendere come mai uno dei più ambiziosi progetti di traduzione romanzesca di questo periodoi nasca proprio all'interno della «Voce», che negli anni aveva ingaggiato più di una battaglia contro i romanzi e i romanzieri.
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