Tra umorismo e satira: donne americane e donne italoamericane nella narrativa di John Fante
La madre italoamericana nell’opera dello scrittore americano (ma di padre italiano) John Fante (1909–1983) è un’umile ed ignorante casalinga, devota a un uomo che spesso la tradisce, precocemente invecchiata a causa della povertà e delle frustrazioni causatele dal marito, incapace di prendersi cura di se stessa, iper-protettiva coi figli ed iper-religiosa – ma di una religiosità che sconfina sempre nella superstizione.
Questa iper-religiosità è via di fuga dalle miserie e sofferenze quotidiane, che sembrano irredimibili su questa Terra, in quanto bagaglio sine qua non di quello che è un marchio di fabbrica, un segno inciso a fuoco sulla sua pelle: l’italianità.
La madre italoamericana, già in posizione subordinata in quanto donna, subisce l’ulteriore umiliazione d’essere un’italiana in America. Una colpa, un peccato primigenio che va espiato tramite miseria e sofferenze. In Aspetta primavera, Bandini (1938) Maria Bandini si sente brutta (e sembra quasi si abbruttisca per punirsi) e avverte lo spazio siderale fra sè e “le donne americane”:
Qualche volta sfogliava una rivista femminile, se gliene capitava una sottomano; quelle riviste eleganti, di carta patinata, che gridavano di un paradiso americano destinato alle donne; mobili stupendi, splendidi abiti; belle donne che trovavano romantico il lievito; donne elegantissime che discutevano di carta igienica. Riviste e fotografie rappresentavano una categoria alquanto vaga: “le donne americane”. Maria parlava sempre con stupita ammirazione di quello che facevano le “donne americane”.
Credeva a quelle fotografie. Poteva restarsene seduta per ore e ore sulla vecchia sedia a dondolo accanto alla finestra del soggiorno a sfogliare le pagine di una rivista femminile, umettandosi metodicamente il dito. Alla fine di quell’esercizio si rialzava stordita dalla persuasione di quanto lei fosse distante dal mondo delle “donne americane” (Fante 1998: 54s.).
A Maria, prosegue il narratore, è sufficiente guardarsi le mani incallite dal lavoro per capire che non sarebbe mai stata una donna americana – perché della donna americana “non aveva niente, nè la carnagione, nè le mani, nè i piedi, neppure il cibo che mangiava o i denti con cui masticava” (ibid., 55). Si noti il tono ironico del narratore – Arturo, figlio quattordicenne di Maria – nei confronti della madre e di queste riviste patinate dove bellissime donne discutono di carta igienica: eppure Arturo, nel resto del romanzo, appare totalmente sprovvisto d’ironia, com’è naturale in un quattordicenne afflitto da mille complessi quale Arturo. Detto per inciso, l’arte umoristica[1] che attraversa quasi l’intera opera di Fante risiede essenzialmente qui: nel distacco (temporale, psicologico, emotivo) fra autore e narratore. Il narratore fantiano narra in diretta gli avvenimenti che gli accadono, senza possedere gli strumenti (fra cui l’ironia) che il suo autore (e noi lettori) possediamo per codificare quegli stessi avvenimenti. Questo svantaggio da parte del protagonista rispetto ad autore e lettore, e fondamentalmente la sua mancanza d’ironia, danno la possibilità a chi legge di sorridere anche di quello che il protagonista considera tragico, di riflettere, di interpretare.[2] Tuttavia, nella descrizione sopracitata della madre, l’autore, almeno dieci anni più vecchio del suo protagonista, si sovvrappone al narratore prestandogli la sua ironia, un’ironia in odore di satira, che tende quindi a ridicolizzare, e la donna che ci viene rappresentata ci appare ridicola.[3]
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