Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l'ideologia dell'autore
Sulle critiche ideologiche a Libertà e sui loro limiti
Ma veniamo a Libertà, una novella pubblicata nel 1882. Come è noto Verga nella sua novella racconta un ‘fatto vero’: una violenta rivolta avvenuta a Bronte a seguito della liberazione della Sicilia da parte dei garibaldini. Anche se certamente lo scrittore si è ispirato a quei fatti è altrettanto certo che li ha ‘mistificati’. Il primo a notarlo è stato Sciascia che ha rilevato le molte omissioni di cui sarebbe stato colpevole Verga, e le ha giudicate come una “una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto” (Sciascia 1970, 82). Giancarlo Mazzacurati a sua volta ha definito il racconto una “aperta difesa di classe” (Mazzacurati 1974, 197). Senza entrare nei dettagli diremo che la mistificazione consiste nell’averci mostrato la rivolta popolare come una brutale eruzione di “violenza cieca e animalesca” nelle parole di Asor Rosa (1966, 55). Insomma Verga avrebbe scritto mettendosi tutto e solo dalla parte di quelli che nel romanzo sono chiamati cappelli o anche galantuomini, come suggerisce lo storico Mario Isnenghi allorché parla di “un fatto vero elaborato come sintomatico dalla fantasia agghiacciata del galantuomo che scrive interpretando e rilanciando le paure di altri galantuomini” (Isnenghi 2011, 96).
Non c’è dubbio, il racconto risente di questa visione di parte, ma allora perché la novella ci piace anche se siamo distantissimi da quella visione di parte? La risposta ‘perché è scritta bene’ non ci può soddisfare. Il presupposto a cui qui ci si richiama fermamente (e enfaticamente) è che ogni giudizio di valore positivo su un’opera presuppone che essa ci comunichi una qualche verità, e sia pure un ‘pezzo’ di verità, e che è ad essa che noi lettori rispondiamo. Bisogna allora provare a chiederci a quale verità rispondiamo leggendo questa novella.
Va da sé che non si tratta appunto di una verità ‘effettuale’, come è quella a cui devono aspirare le cronache e le ricostruzioni storiche. Se giudicata con questo parametro la novella risulta gravemente difettosa. Ad essere in gioco è evidentemente un’altra verità che, se anche ha preso spunto da quei fatti, li ha ricreati e trasfigurati. E’ perciò inutile rimproverare a Verga di non essere stato obiettivo a proposito di Bronte perché non intendeva esserlo: quell’evento storico è stato per lui solo un pretesto per parlare di qualcosa di più generale. Proviamo allora a dire quale tipo di contraddizione di carattere più generale Verga esplora in Libertà. Direi che ci parla del tentativo (inevitabilmente) fallimentare di modificare un mondo bloccato, arretrato, ‘meridionale’ in senso lato; ci parla di una Rivoluzione mancata e del senso di frustrazione, rabbia e disperazione che ne deriva; ci parla in conclusione dell’altra faccia di un sistema-nazione, ma sarebbe meglio dire di un sistema-mondo, e ce ne parla nella persuasione che quel fallimento avvenuto in periferia getta luce sulle contraddizioni e illusioni che interessano in primis il centro. Sembra che Verga contrapponga alle illusioni del cosiddetto progresso la fatalità, il senso di un eterno ritorno dell’uguale, di una natura umana immodificabile. Come se non solo non fosse possibile uscire dai mali prodotti da vecchie e nuove strutture sociali di ingiustizia e disuguaglianza tra gli uomini ma anzi questi mali peggiorerebbero quanto più si pretende di risolverli. E’ una ‘verità’ conservatrice o reazionaria a cui molti ammiratori della novella si rifiutano certo di aderire. Ha scritto sempre Mario Isnenghi a proposito di questa visione, che fu di Verga ma anche di De Roberto e Pirandello: “La fatalistica accettazione del mondo così com’è – pieno di soprusi e disuguaglianze, ma non redimibile perché la ‘Sicilia’ è il mondo e la condizione umana non muta – ha funzionato come educazione civica a rovescio per molte generazioni di lettori e cittadini acculturati, ‘colonizzando’ l’immaginario anche dei non siciliani. E tanto più quanto la grandezza letteraria stava dalla loro parte” (Isnenghi 2011, 94s.). Che appunto è come dire la novella è scritta bene, ma il suo contenuto di pensiero è inaccettabile. Non è certo con questi argomenti che possiamo ‘salvare’ la novella.
Di come Libertà rispecchi e rovesci l’ideologia di Verga
Diciamo allora che, fermo restando che quella di Verga è una visione pessimista e fatalista del mondo, si tratta di capire come a partire da quella abbia poi prodotto grande arte. Non è la prima volta che accade, e pare anzi che sia quasi la regola, ma si tratta appunto di provare a capire come ciò accada. Ebbene, l’ipotesi di fondo, che va ben oltre il caso Verga, è che nel tempo del trionfo dell’ideologia del Progresso, visioni poetiche che postulano provocatoriamente strutture immodificabili del mondo e della natura umana, possono produrre momenti di verità e illuminazione. Non a caso ho parlato di una ‘visione poetica’ per distinguerla sia da quella “ideologia monarchica e crispina” a cui si riferisce Sciascia, che da quella saggezza spicciola che, secondo Isnenghi ha funzionato come “educazione civica a rovescio”, per tanti italiani. Diciamo che la visione di Verga supera quelle ideologie per cupezza e disperazione. Non solo, Verga si differenzia anche da quelle concezioni di ispirazione cristiana che, a partire da de Maistre, tentarono di stabilire una sorta di superiore legittimità di un ordine sociale fondato da sempre e per sempre sulla disuguaglianza tra gli uomini. Il materialismo di Verga non gli permetteva nessuna difesa aprioristica di quell’ordine, bensì solo la constatazione, desolata e nichilistica che esisterebbe una sorta di fato che rende vani tutti i tentativi di emancipazione. Possiamo dirlo con le parole di Romano Luperini: “l’inutilità dell’azione umana tesa ad inserirsi nel tessuto sociale e a modificarlo diventa allora di necessità inutilità assoluta di qualunque azione, riconoscimento dell’assoluta impotenza umana” (Luperini 1976, 205). Ora, è indubitabile che dal punto di vista intellettuale Verga non vada e non veda oltre questo orizzonte chiuso e disperato ma non è detto che non spinga noi lettori ad andare e a vedere al di là di esso.
Sempre Isnenghi suggerisce che per Verga “la Sicilia è il mondo” (Isnenghi 2011, 96); il mondo forse no, ma è certo che essa sta per qualsiasi altra periferia arretrata, e cioè per qualsiasi altra terra ingrata, aspra, senza speranza, “irredimibile” (Tomasi di Lampedusa 1995, 186).[1] Della asprezza e ingratitudine di quella terra testimoniano prima di tutto squarci paesaggistici come questo: “in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna” (Verga 1992, 322);[2] ma anche per esempio i passi che ci raccontano la fatica per gli estranei di arrivare fino a lassù: “Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; […] giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito” (ibid., 323); “arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento” (ibid. 323s.). Ma di quanto la natura e il clima incombano schiaccianti sulle azioni umane ci dà conto anche il contrasto tra l’incipit pieno di energia – “Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! –ˮ (ibid. 319) – e il passo che ci dice invece di come il giorno dopo quella spinta si fosse esaurita: “Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio” (ibid. 322). E’ come se quella schiacciante “caldura gialla” avesse di nuovo preso il sopravvento sopra un’iniziativa umana tesa al cambiamento. Ora, l’asprezza del paesaggio di Verga rimanda, ben al di là dei dati di realtà, ad un senso di “irredimibilità” storica che fa da filo conduttore della novella. E’ come se ogni progetto di riforma o rivoluzione della società siciliana, ma si direbbe di ogni società, si scontrasse qui con un limite insuperabile.
E anche il fatto narrato si presta a simili trasposizioni di significato. A partire dal titolo che allude ironicamente a quella che era stata la prima parola d’ordine dell’immortale trinomio rivoluzionario: libertà, uguaglianza, fraternità. Ogni rivolta o rivoluzione moderna si richiama immancabilmente a valori di libertà. Qui Verga si compiace proprio a mostrarci quanto essi siano ingannevoli e pericolosi. Lo fa a partire dalle ‘libertà’ proclamate e promesse dai garibaldini e dai piemontesi, ma ancora una volta si sente che ad essere in questione è un problema più generale. Come se l’autore ci chiedesse provocatoriamente: che tipo di libertà? Quanta libertà? Libertà di chi? Da chi e da che cosa? Libertà per che cosa?…
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