Mamma Roma, addio?
E io me ne andavo da quella Roma… (Remo Remotti 1987)[1]
Roma caput mundi?[2] Chissà. Io ci sono passato, la prima volta, che era il 1947. Ci arrivai in un modo che dire tortuoso è dire poco. Avevo vent’anni e Roma allora – nella mia personalissima geografia del mondo – era una capitale famosa, ma non molto di più. C’era il papa, e questo forse contribuiva a renderla originale.
Il ’47, per me, è stato l’anno delle grandi esplorazioni, tra Marco Polo e Ryszard Kapuściński. Uscivo per la prima volta da 11 anni di clausura palestinese, tra tensioni più o meno continue tra ebrei ed arabi e l’aggravante, dal ’39, della seconda guerra mondiale. Ero da poco approdato, quell’anno, in un’altra capitale europea: Praga. Ci vivevo da qualche mese, in maniera non sgradevole ma piuttosto precaria, assieme a Yudka, la mia donna di allora; quella che sarebbe diventata la mia prima moglie.
La sua famiglia era di origine slovacca. Anche lei era fuggita in Palestina: noi – i Bachmann – nel 1936, dalla Germania; lei invece nel 1938, dalla Cecoslovacchia, dopo la crisi dei Sudeti. Tutti ebrei, in fuga dalla tenaglia hitleriana, che avrebbe dissolto la Cecoslovacchia, di fronte alla sostanziale impotenza delle grandi nazioni democratiche d’Europa e condotto i tedeschi verso la rovina della guerra e l’orrore della Shoah.
Foto 1. Gideon e Yudka, Palestina, 1947
Io e Yudka eravamo allora tutti e due sudditi particolari di Sua Maestà, ‘ospiti’ nella Palestina britannica: io vivevo a Tel Aviv, lei ad Haifa. Una breve distanza oggi, eppure assai ardua da percorrere, in un periodo come quello, con mezzi di fortuna, in un paese ancora per molti aspetti primitivo, almeno per europei sradicati come noi. Eravamo già insieme: fidanzati che si incontravano (per lo più) nei fine settimana e approfittavano (per quanto possibile) della ‘tolleranza’ della mia famiglia borghese che aveva infine deciso di concederci un po’ di intimità e di sopportare la nostra convivenza occasionale di giovane coppia di fatto, nella casa che abitavamo di fronte al mare di Tel Aviv.
Riuscimmo a lasciare la Palestina con il pretesto di partecipare al primo festival della cosiddetta ‘gioventù democratica’, che radunò giovani di molti paesi, prevalentemente militanti di gruppi socialisti e comunisti. Noi proprio comunisti non eravamo; tuttavia, aggregarci a quella confusa carovana di gente che stava raggiungendo Praga ci aveva consentito con qualche sollievo di lasciare il piccolo – e turbolento – mondo mediorientale che non riusciva sempre ad entusiasmarci. Lungo il viaggio – attraversammo la Yugoslavia e l’Ungheria – imparammo un inno in molte lingue, facendo vita collettiva, che mal sopportavo (già dai tempi delle mie prime esperienze nel kibbutz) specialmente per le scarsissime occasioni offerte al sesso, che ci era più o meno materialmente proibito, in una declinazione puritana dell’entusiasmo rivoluzionario. Il festival finì in agosto e noi decidemmo di non tornare indietro. O almeno di non farlo subito. Yudka aveva nel frattempo ritrovato a Praga persino qualcuno della sua famiglia; così, all’inizio di settembre del ’47, ci accingemmo a partire alla scoperta dell’Europa.
L’Europa del dopoguerra era composta di tanti frammenti diversi, spesso drammatici ma sempre maledettamente interessanti, dopo lo sconvolgimento della catastrofe bellica. Da Praga, decidemmo di attraversare l’Austria occupata, verso l’Italia, dove io ero già passato coi miei genitori nel 1936, l’anno della nostra fuga dalla Germania. Come viaggiare, senza altre risorse che quelle delle mie magari belle ma certo sottopagate corrispondenze? Mi accreditavo infatti – e lo ero anche, in realtà, almeno in parte – come giornalista: corrispondevo con diverse testate, ma questo non bastava per fare ciò che avevamo in mente.
Così, pensai all’uniforme. L’idea mi venne durante una giornata passata, a Praga, davanti all’ufficio della Brichah[3]: era il periodo dei CARE Packages[4], i pacchi di aiuto con latte in polvere, cibo e molte altre cose. Come poi sono stati mandati in tanti altri posti del mondo in crisi, a Gaza o in Ruanda, allora dall’America arrivavano in Europa. Si spedivano anche vestiti, nuovi o più spesso usati.
Foto 2. Gideon Bachmann in divisa, Praga, 1947
Arrivavano dei grossi camion, lì a Praga, in Yosefovska 5; la gente veniva e prendeva quello di cui aveva bisogno. Spesso c’erano anche pezzi di uniforme, così iniziai a raccoglierli: giacche, mantelli, berretti, ammennicoli militari di ogni sorta. Poi mi feci fare da un ricamatore una serie di mostrine, con scritto R.L.I. Correspondent, corrispondente militare: feci cucire delle mostrine sull’uniforme che avevo composto – di nessun esercito, di nessun paese – e partimmo, io e Yudka.
Le forze armate degli eserciti alleati – inglese, francese, americano – avevano libero accesso su ogni mezzo di trasporto disponibile: treni, tram, persino gli aerei… Grazie alla mia invenzione, viaggiare non ci costava niente: si andava dal cosiddetto Quartermaster – avevo allora questo passaporto britannico, che non era britannico ‘vero’, ma coloniale; e poi avevo i documenti da giornalista – e si andava.
Avevo un Garrison Pass[5], una specie di lasciapassare non proprio ‘ortodosso’, né vero né falso: ovvero, il documento era vero, mentre erano assolutamente discutibili le motivazioni che avevano consentito il rilascio di quel ‘pass’. Non si poteva essere corrispondenti da un paese occupato senza essere accreditati presso il paese occupante. Il mio documento era inglese, che mi consentiva di mangiare nelle mense militari e acquistare nei negozi per i soldati, dove si potevano comprare le calze di nylon – così importanti per le relazioni con le ragazze in quel periodo – e le Hershey’s Bar, le mitiche barrette di cioccolata dell’esercito; oltre le sigarette, naturalmente, l’altra grande valuta corrente di quei giorni.
Cominciammo il viaggio in treno – anche se allora i treni andavano dove potevano – dove c’era ancora almeno un binario integro su cui transitare: ci mettemmo giorni solo per attraversare le Alpi. Da Venezia a Roma, però, ci diedero un aereo. Al Quartermaster britannico (era il settembre del 1947 e si trovava in piazza San Marco, dove ora c’è il museo) chiesi con una buona dose di faccia tosta: “Devo andare a Roma, con mia moglie – che ancora moglie non era, ma insomma… – che trasporto c’è?” E allora ci caricarono su un idrovolante, che partì sbuffando sull’acqua ed atterrò piuttosto pericolosamente ma coraggiosamente a Ciampino, su una pista di metallo, arrangiata come possibile su un terreno più buche che altro, ancora da ripristinare dopo i bombardamenti.
Si entrava a Roma dalla via Appia, neanche fossimo stati legionari di Cesare. La capitale aveva un aspetto particolare: La condizione di ‘città aperta’ non l’aveva salvata – negli anni della guerra – dalle bombe alleate al quartiere di San Lorenzo e l’occupazione tedesca non aveva risparmiato atrocità ancora vive nella memoria dei romani di allora che piangevano con disperazione i caduti alle Fosse Ardeatine e i deportati nella brutale razzia degli ebrei del 16 ottobre 1943. Eppure, Roma – che dicevano essersi affidata alla personale intercessione del papa cattolico presso l’Onnipotente per essere protetta – mi sembrò meno sofferente di altre capitali che avevo appena visto o che avrei visitato di lì a poco. Il centro monumentale delle antichità imperiali e delle bellezze rinascimentali e barocche aveva conservato ancora pressoché intatto il suo incanto, forse un po’ trasandato ma sempre affascinante. Vedemmo piazza san Pietro, il Campidoglio e il Foro Romano, girando in jeep attorno al Colosseo; e poi ancora il Gianicolo, la fontana di Trevi ed altri luoghi che non ricordo, forse un po’ convenzionali, ma che ai nostri occhi di allora apparivano di una bellezza folgorante.
La gente di Roma, che era stata sostanzialmente ostile all’occupante (alleato) germanico, si mostrava allora piuttosto benevolente e ospitale con gli anglo-americani: Eravamo accolti ovunque con simpatia più o meno sincera, da persone alla ricerca di una verginità perduta e del modo migliore per far dimenticare – a quei militari – il passato fascista, ed essere infine di nuovo ammessi tra le nazioni democratiche. Le ragazze, poi, erano particolarmente cordiali: Guardavano con curiosità la mia bizzarra divisa, che spiccava per la sua originalità. Purtroppo, non riuscii ad avere molti contatti con loro, ‘scortato’ praticamente ovunque da Yudka, che si comportava da moglie, anche se non lo era ancora.
Avevo appena iniziato ad assaggiare il fascino della città eterna che – due giorni dopo il nostro arrivo – accadde un fatto per me inatteso. Arrivai la mattina all’ufficio del Quartermaster britannico, che era in via delle Quattro Fontane, a palazzo Barberini, dove c’è la Galleria nazionale d’arte antica e dove ero già andato per ottenere le razioni alimentari. Volevo chiedere un passaggio per Genova, ma l’ufficio era inaspettatamente chiuso e senza quel viavai consueto che circonda tutte le sedi burocratiche, comprese quelle militari. Non capivo perché. Me lo disse un soldato di passaggio, in sidecar, che abbordai mentre caricava a bordo un sottufficiale: Quel giorno lì era finita l’occupazione, e l’ufficio non c’era più…
Eravamo senza una lira (né altra valuta, ché allora se ne usava più d’una) e abitavamo in una pensione senza pretese; facemmo qualche conto e poi, ritardata la partenza, decidemmo di mettere sul mercato alcune delle nostre preziose provviste. Raccogliemmo così il denaro necessario per due biglietti, di terza classe. Il nostro vagone era affollato di uomini e bestie: Lasciammo Roma e in 24 ore arrivammo a Genova, viaggiando accanto ad un contadino con alcuni polli al seguito.
Quello del ’47, alla fine, era stato poco più che un saluto alla città. Il secondo sarebbe stato non molto tempo dopo, nel 1950. In quei tre anni scarsi la mia vita aveva ancora una volta cambiato direzione.
Foto 3. Passaporto mandatoriale britannico di Hans Werner Bachmann
Dopo il viaggio in Europa – oltre l’Austria e l’Italia, fummo in Francia, Germania, Polonia, Belgio e Svizzera – Yudka ed io eravamo ritornati a Praga. Ero lì quando i comunisti presero il potere in Cecoslovacchia; ed ero ancora lì quando, appena qualche mese dopo, venne proclamata la nascita dello stato di Israele, il 14 maggio del 1948.
Furono fatti per noi inattesi, anche se forse prevedibili, col senno di poi. Specie la nascita di Israele: Nessuno se l’aspettava, anche se molti la auspicavano. A me arrivò subito la mobilitazione militare, che avrebbe dovuto consentire – col richiamo alle armi dei giovani – la difesa dagli attacchi delle nazioni arabe e la sopravvivenza dello stato.
Eravamo in diversi in quella originale condizione: senza documenti – io col passaporto mandatoriale britannico, prossimo a perdere ogni efficacia – e tutti reclutati per tornare in Israele, per lottare. Ci veniva dato un documento di viaggio, per tornare in Israele. Se ne occupava sempre l’ufficio di Yosefovska 5, che aveva fino ad allora ospitato la sede della Brikhah e che divenne subito la sede provvisoria del nuovo stato, con le stesse segretarie, lo stesso personale, al quinto piano del palazzo.
Ma io non volevo tornare laggiù, tantomeno per combattere. Mi aiutarono il caso e la mia conoscenza delle lingue: ma è una storia che merita un racconto a parte, tanto è emblematica. Qui basti dire che io, Hans Werner Bachmann, già cittadino discriminato del Terzo Reich germanico e poi suddito di Sua Maestà imperiale britannica, ottenni in quell’estate del 1948 – appiccicato su un lasciapassare provvisorio israeliano, a sua volta cucito al passaporto britannico – un visto per gli Stati Uniti d’America. Sposai Yudka alla vigilia della partenza, con una cerimonia piuttosto minimalista, svolta frettolosamente presso gli uffici del municipio, ed approdai infine – il 19 di agosto – a New York, passeggero della nave S.S. America, partita da Le Havre esattamente una settimana prima.
I primi anni americani furono molto segnati dai miei tentativi di trovare un modo per vivere laggiù. Mi barcamenavo come potevo: Lavorai in un supermarket, trasportai armi, insegnai ebraico… Ero sempre corrispondente per varie testate, e provai anche ad aprire un’agenzia per il turismo americano verso Israele, anche se per me era ancora sconveniente recarmi laggiù, ché sarei stato subito ‘militarizzato’. Ma i miei genitori vivevano ancora a Tel Aviv, e l’America era troppo lontana per loro. Decidemmo così di riunire almeno un pezzo di famiglia a mezza strada o quasi, e scegliemmo Roma: Come agente di viaggio potevo ottenere, ogni tanto, passaggi semigratuiti in aereo, approfittando della politica che le compagnie facevano per strappare passeggeri alle navi, a quel tempo ancora il mezzo preferito per i viaggi transoceanici. Fu l’occasione di un incontro curioso, tra il giovane ambizioso ma un po’ fuori fase che ero, in corso di ‘americanizzazione’, e una donna di mezza età, qual era allora mia madre, che provava tenacemente a sopravvivere – da sionista scampata alle grinfie del nazismo – in un paese appena nato eppure perennemente mobilitato, ancora alla ricerca del suo posto tra le nazioni.
Trovammo alloggio in un alberghetto del centro – non ricordo più quale – e mi arrangiai a farle da ‘cicerone’, come avevo imparato si chiamano a Roma le guide, spesso improvvisate, che conducono i turisti alla scoperta della città. Lei tornava in Europa per la prima volta dopo la fuga in Palestina del 1936. La ricordo euforica, un po’ malinconica e curiosa, combattuta tra la nostalgia di rimettere piede nel suo mondo europeo e la curiosità per l’Italia, bella ma un po’ troppo levantina.
Foto 4. Bella Strassburger Bachmann, Roma, 1950
Le tracce della guerra andavano affievolendosi e la città provava a riprendere la propria strada, dopo l’interruzione brusca dei grandiosi progetti di Mussolini per lo sviluppo della capitale dell’Impero. C’erano le celebrazioni per l’Anno Santo, e mi incuriosì molto vedere le folle di pellegrini, devoti ed intruppati, far visita ai luoghi di culto – che in qualche caso erano anche quelli dove accompagnavo mia madre in visita – e convergere verso le grandi basiliche, entusiaste del loro papa che si muoveva con gesti teatrali e parlava quasi fosse un leader politico.
Viaggiavo solo, nel 1950; con Yudka, nonostante molti buoni propositi, ci eravamo lasciati (per lettera) praticamente subito dopo la mia partenza per gli States e lei nel frattempo aveva scelto di mettersi insieme ad un comune amico di entrambi, Yehuda: Ebbero pure una figlia, nel 1949. Anche se ero senza divisa, le ragazze romane mi apparvero ancora ben disposte verso l’americano che ancora non ero (lo sarei diventato solo nel 1953, col nuovo nome di Gideon). Questa volta, non mancai di fare conoscenza con qualcuna di loro.
Tornai a New York. Divorziai da Yudka per potermi sposare con Rachel, una giovane ebrea polacca, fortunosamente fuggita con la sua famiglia durante la guerra (il padre era un importante esponente del Bund[6]) dalla tenaglia congiunta tedesco-sovietica contro la Polonia e giunta con un viaggio incredibile negli Stati Uniti attraverso la Siberia, il Giappone e l’Alaska: Da lei acquistai la cittadinanza americana e la possibilità di usare il nome Gideon, che verrà scritto per la prima volta sul mio passaporto USA e che da allora mi renderà possibile essere presentato formalmente al mondo con una identità nuova di zecca.
Provai a fare lo scultore, ma non era un mestiere che mi consentisse di vivere dignitosamente; mi ricordai allora di essere parente alla lontana di Hans Richter, già a quel tempo noto esponente del movimento dadaista: Lo cercai – egli dirigeva l’istituto del cinema al City College di New York – e lui, dopo avermi ascoltato non senza perplessità, mi disse: “Sai, io penso che uno scultore veramente grande tu non lo diventerai mai. Perché non vieni un giorno e assisti ai miei corsi di cinema? Forse ti interessa”. La mia relazione col cinema – dove fino a quel momento ero entrato solo da spettatore, nemmeno troppo interessato – cominciò proprio così.
Di lì a poco, la stazione radio della Fordham University mi chiese di condurre una trasmissione radiofonica ed io – che non sapevo ancora granché di cinema – per quindici minuti di radio mi preparai per tre mesi, leggendo libri, parlando con degli esperti, studiando… Fu un successo inaspettato. In poco tempo, il programma si ‘allargò’: divenne una trasmissione settimanale con una importante audience e cominciò ad accogliere ospiti, che conversavano con me delle questioni più disparate. La trasmissione raggiunse la durata di 90 minuti, trasmessa in Canada dalla CBC ed in Inghilterra dal terzo canale della BBC.
Imparai come si usa una macchina da presa 16 millimetri, e cominciai a fare qualcosa. Nella mia ‘classe’ newyorkese, lì da Hans Richter, c’erano Jonas Mekas, Bob Brooks, Shirley Clarke. Fu a New York che un giorno del 1957 arrivò un italiano semisconosciuto, di nome Federico Fellini, per fare pubblicità al suo film Le notti di Cabiria. Lo andai a trovare nella sua stanza d’albergo. Complice la bellezza della mia compagna di allora, Suzie, entrammo in confidenza e lo intervistai. L’intervista fu un successo e l’occasione per un contatto che si trasformò presto, almeno in quel tempo, in qualcosa di abbastanza simile ad un’amicizia.
Così, quando nel ’61 tornai in Europa, lo andai a trovare, a Roma, sul set de Le tentazioni del dottor Antonio. Fellini girava tra Cinecittà e l’EUR, questo quartiere razionalista e un po’ metafisico, pensato durante il fascismo e completato solo nel dopoguerra; lavoravano con lui un esilarante Peppino De Filippo ed una prorompente Anita Ekberg, che si muoveva sensuale e bellissima tra i plastici che ricostruivano l’asse principale del quartiere, tra il Palazzo della Civiltà italiana – il ‘Colosseo quadrato’, come dicevano i romani – ed il nuovo Palazzo dei Congressi. “Bevete più latte!”, intonava allusivamente la canzone, inquadrando il davanzale della Ekberg.
Mi venne l’idea di raccontare la vita di Fellini in un libro e lui – anche se con quella civetteria commista ad ironia che tanto lo contraddistingueva – si dichiarò inaspettatamente d’accordo. Così tornai rapidamente a New York e sottoscrissi un contratto con una importante casa editrice – la Simon & Schuster – per scrivere questa biografia. Ricevetti dall’editore un anticipo – per l’epoca – davvero spropositato: 1000 dollari. Per un libro che non vedrà mai la luce e che potrebbe essere raccontato come una storia a parte, se qualcuno ne avesse voglia.
Il destino aveva così deciso – ancora una volta – che dovessi riapprodare a Roma. Era l’inizio dei mitici anni ’60 e questa volta decisi che sarebbe stato amore, per sempre o quantomeno a lungo, pensando che – dopo Parigi – quella era finalmente la città dove mi sarebbe piaciuto vivere.
Avevo trovato questa casa meravigliosa, alla Torre del Grillo, con visione diretta sulle antichità imperiali; ci abitavo con Margherita, allora giovane e affascinante studentessa di servizio sociale, svizzera di lingua italiana, con la quale – specialmente dopo la fine della nostra storia – ho avuto spesso la sensazione dell’occasione mancata. Ma sono cose che si possono sempre dire, dopo.
Era davvero difficile non rimanere stregati da quel magico affaccio sulla città. Ma anche dopo averlo lasciato, ho sempre pensato che a Roma avrei potuto comunque trovare un altro posto ideale per vivere.
Foto 5. Roma dalla Torre del Grillo, 1962
In fondo, ho subito anch’io come tanti quel fascino e quel clima che ho ritrovato così ben espressi in alcuni disegni di Ulla Kampmann.
Si poteva andare ovunque in giro con la macchina ed io avevo comprato questa Spider Alfa Giulia decappottabile, con targa americana o forse svizzera, con la quale andavo spesso a prendere Margherita all’uscita delle sue lezioni, nella piazzetta all’Aventino. Conducevo un’esistenza molto brillante: cene, ragazze, vita sociale, mentre poi magari recitavo e fotografavo con Fellini sul set di 8½, quelle belle foto che sono state pubblicate in volume solo qualche anno fa.[7] Pubblicavo anche interviste e articoli sulla terza pagina del Messaggero, che è sempre stato, tra i quotidiani, il non plus ultra della romanità.
Foto 6. Il Messaggero, 24 agosto 1973: Gideon Bachmann intervista Pier Paolo Pasolini durante il suo viaggio in Persia
Una vita così a New York non l’avrei mai potuta fare: In fondo l’Europa, particolarmente l’Italia e la Roma di quegli anni, erano per me – giovane americano poliglotta che lavorava addirittura nel mondo del cinema, la più magica delle professioni nella mentalità di un popolo di ex contadini – una sorta di utero accogliente in cui vivere e crescere a dismisura, senza preoccupazione alcuna.
Continuò per lunghi anni, quella mia vita romana mondana, un po’ frivola ma tutto sommato felice, senza troppi inciampi e con varie soddisfazioni, almeno fino alla metà degli anni ’70. Dovemmo però lasciare – io e Margherita – la casa alla Torre del Grillo. Le agenzie alle quali ci rivolgemmo ci proposero di tutto, sapendo il luogo che avevamo lasciato: luoghi magici ed improbabili, perlopiù accessibili solo ad un Paperone, quale però non ero. Optammo così per un luogo forse più modesto ma ugualmente suggestivo: un appartamento in piazza Sant’Eustachio, nel cuore della città.
Con Margherita, ci sistemammo arredi di scena erotici, provenienti dal set del Satyricon, ma la nostra relazione stava capitolando. Avevo infatti nel frattempo conosciuto Deborah. Ci eravamo incontrati per caso a Londra in un ristorante indiano, durante la mia trasferta per la presentazione di Ciao, Federico![8], questo backstage ante litteram – allora non si chiamava così – su Fellini al lavoro. Fu passione – e non solo amore – a prima vista. Lei – che aveva vent’anni ed era fisioterapista – decise di seguirmi e per farlo imparò a fotografare proprio bene, fino a diventare una delle più brave nel suo genere.
Foto 7. Deborah Imogen Beer, 1990
Ottenne un suo posto, nel mondo del cinema, separato ed autonomo dal mio, anche se qualche volta eravamo insieme, come sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove sarà l’unica ammessa da Pasolini a fotografare sulla scena del suo straziante e respingente testamento artistico.
Fu con Deborah che gestimmo – a malincuore – il trasloco da piazza sant’Eustachio. Non ce ne andammo volentieri: Era un posto stupendo, con affaccio su piazza della Rotonda, che abbiamo amato molto, nonostante il rumore continuo che proveniva dalla stamperia del Senato. Ma avevamo l’acqua alla gola per lo sfratto, nel 1986, e non sapevamo dove altro andare.
Accadde così che incontrai un certo Surini, che aveva una galleria d’arte in una traversa di via Veneto, la Domus. Faceva anche un po’ l’agente immobiliare, così gli spiegai il mio problema. Mi propose perciò un appartamento a Monteverde Vecchio, in viale di Villa Pamphili, non lontano da quello abitato un tempo da Pasolini in via Carini:[9] un panorama stupendo sulle antenne di Roma, come mi venne sommessamente di dire non appena lo vidi. Era la casa di una sua vecchia conoscente italiana, che aveva sposato un americano e lasciato questa casa per trasferirsi a San Francisco, pensando di tornare un giorno a Roma; la affittava a turisti e stranieri, soprattutto per brevi periodi, ed era perciò ammobiliata. Mi disse che – se volevo – mi ci sarei potuto sistemare.
Gli dissi di sì, soprattutto per il grande terrazzo, che Deborah avrebbe riempito di bizzarre bottiglie dalle forme più strampalate e dove amava prendere il sole più o meno nuda, suscitando invidia e curiosità tra i vicini e forse richiamando qualche guardone domestico. Pensavo ancora in cuor mio che prima o poi avremmo trovato – Deborah ed io – un’altra casa davvero di nostro gusto e proseguimmo anche, per un po’, nella nostra ricerca. Pure allora, come accadde con Margherita anni prima dopo lo sfratto dalla Torre del Grillo, ci fecero vedere un gran numero di case, preparate ad arte per sedurre turisti. Ma alla fine rimanemmo a Monteverde, forse più per pigrizia che per scelta. Abitavamo insieme, oltre che a Roma, anche nel loft allestito da Deborah accanto alla casa dei suoi genitori, nella campagna inglese, in un posto incantevole e selvaggio che ha un po’ il nome di una motocicletta: Hurley. Anzi, avevamo addirittura un terzo appartamento di appoggio a Wiesbaden, circa a metà strada, visto che lavoravo per il secondo canale pubblico della tivù tedesca, facendo documentari che poi si montavano a Magonza.
Ci ho messo quasi trent’anni a liberarmi da questa città, ma già da poco prima della morte di Pasolini il mio disagio e la mia insofferenza erano giunte al colmo. Una città in cui non funziona niente, in cui tutto si ottiene per conoscenza o con trattative sottobanco, incivile, rozza, piena di corruzione, sporcizia, vibrazioni, fumi, rumore soprattutto…
Se ci penso bene, forse tutte queste cose a Roma ci sono sempre state e forse era l’età giovanile che me le rendeva meno evidenti e più tollerabili; ma nel pensiero di oggi, mi stupisco di come sia riuscito a sopportare di abitare in questo luogo così a lungo. Ricordo un libro tutto dedicato alla critica a Roma, pubblicato in quegli anni, con le firme di alcuni tra i più grandi intellettuali di allora: Alberto Moravia, Dacia Maraini, Eugenio Montale, Enzo Siciliano… Si intitolava Contro Roma[10], e fece un certo scalpore, almeno tra i corrispondenti dall’Italia, quale io – in parte – potevo senz’altro essere annoverato. Pasolini, poi, ne aveva parlato praticamente da sempre, con quella chiarezza inquietante che gli apparteneva tutta: Oltre all’aberrazione antropologica italiana, forse nessuno come lui ha descritto la deriva di Roma e la violenza fatta alla città e ai suoi giovani.[11] Ero come stregato, allora, da Roma, anche se non credo agli incantesimi.
Ripercorrendo oggi la storia di quel periodo, a Roma e in Italia più in generale, si rimane colpiti dal clima della violenza politica di quegli anni, definiti – grazie alla cinematografia tedesca – “anni di piombo”[12]; ma se devo essere sincero, a parte qualche episodio tutto sommato minore di piccola criminalità – come qualche furto di materiale cinematografico e simili – la mia vita personale rimase sostanzialmente estranea a tale clima. Anche nel mio lavoro per la televisione tedesca – per la quale realizzai pure documentari su diversi aspetti della vita in Italia, compresa la sfera politica – il tema della violenza, paradossalmente, rimase solo un soggetto tutto sommato secondario. Volendo dare un giudizio postumo, sono stato forse allora un giornalista distratto, ma a dire la verità, probabilmente, era il mio lavoro nel cinema ad essere dominante.
Gli ultimi anni a Roma – magari l’ho già detto – sono stati più incubo che sogno. Con Fellini – dopo il mio inedito ma a lui non troppo gradito ritratto di Ciao, Federico!, che mi costò la rottura sostanziale di quella che avevo creduto un’amicizia ma che probabilmente era piuttosto cameratismo maschile tra gente di spettacolo – non c’era più molto rapporto. Pasolini era tragicamente scomparso, in quel modo così emblematico della sua travagliata vicenda umana, come scrissi in un articolo – improvvisamente censurato da un redattore nella sua epigrafia finale – su Die Zeit[13].
Continuavo il mio lavoro, facendo base a Roma eppure in giro per il mondo, con Deborah ma anche senza di lei. Fino a che, un maledetto giorno del 1994, dopo un periodo di vaghi ma fastidiosi malesseri, arrivò per lei una sentenza che ci lasciò annichiliti: leucemia.
Una forma incurabile, allora e forse anche ora. Cominciammo a frequentare il grande ospedale San Camillo, vicino casa, per lunghi e ripetuti ricoveri, cui seguivano periodi di isolamento per Deborah e di sconforto profondo per me. Roma – benché inetta – non ci fu ostile, anzi. Ebbi la sensazione – in quel caos diffuso che erano allora molti ospedali, compreso quell’ospedale – che in tanti si prodigassero per aiutarci, seppure impotenti. Io continuavo a mandare fax in giro per il mondo, nella speranza che fuori Roma potesse essere possibile fare qualcosa di più.
Invano. Assieme a Paolo, il mio nuovo amico italiano che avevo conosciuto proprio allora, provammo allora almeno a venire incontro alla volontà di Deborah, che chiedeva di tornare in Inghilterra. Organizzammo un rimpatrio rocambolesco e drammatico, di cui non posso raccontare i particolari, ma che consentì a Deborah – che nel frattempo ed in fretta a Roma era diventata la mia terza (ed ultima) moglie, – di morire in Inghilterra, come desiderava. Ho disperso le sue ceneri – sempre in adempimento di una sua richiesta – nel mare dei Caraibi, qualche tempo dopo.
Dopo di allora, ho evitato – per quanto potevo – di tornare a Roma. Qualche occasione cinematografica, una retrospettiva o poco più. Era rimasta questa casa che mi generava solo depressione e malinconia, oltre ad un deposito pieno zeppo di materiali che non sapevo dove portare. Ancora una volta, la mia vita cambiò direzione. Anche se non si dovrebbe tornare nel luogo da dove ti hanno così tragicamente cacciato, approfittai dell’occasione offertami da Edgar Reitz[14], che mi propose di seguire in Germania – a Karlsruhe – i giovani che intendevano dedicarsi all’ingannevole ma seducente arte cinematografica. Gli anni che seguono sono così un po’ quelli dell’ultimo naufragio su una sponda inattesa. Dopo la Palestina, Praga, New York, Parigi, Roma, di nuovo la Germania.
Col tempo, radunai laggiù le tante cose accumulate e conservate nei miei depositi, compreso quello di Roma; affittai a Karlsruhe – oltre alla nuova casa col glicine di Gartenstrasse, di fronte lo Zentrum für Kunst und Medientechnologie (ZKM) – un grazioso loft ad uso magazzino, dove aprire ed ordinare le casse che via via giungevano un po’ da ogni parte, e composi infine questa casa, coi frammenti accumulati in così tante vite da farla sembrare quasi un museo.
Non ho rammarico né nostalgia per avere lasciato Roma. Eppure, pensando a questa città, mi tornano spesso in mente i versi struggenti e tragici di Pasolini[15], recitati da Orson Wells ne La Ricotta:
Io sono una forza del passato
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi delle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti del Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere d’una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Bibliografia
Bachmann, Gideon/Gallo, Donata (1975), "Conversazione con Pier Paolo Pasolini". In Film critica, Nr. 256.
- (1970), Ciao, Federico!, film.
- (1976), "Sodom oder Das stilisierte Grauen". In Die Zeit, Ausgabe 30. Januar 1976. In http://www.zeit.de/1976/06/sodom-oder-das-stilisierte-grauen (consultato il 19.01.2019).
Bauer, Yehuda Bauer (1970), Flight and Rescue: Brichah. New York: Random House.
Blatman, Daniel (2003), For our Freedom and Yours: the Jewish Labour Bund in Poland 1939-1949. London: Mitchell.
Crozzoli, Andrea/Sesti, Mario (Hg.) (2003), Otto e mezzo. Il viaggio di Fellini. Pordenone: Cinemazero.
Dekel, Efrayim (1973), B'riha: Flight to the Homeland. New York: Herzl Press.
Eronico, Egidio (1987), A proposito di Roma. In https://www.youtube.com/watch?v=TRX_Rvx1ypA (consultato il 19.01.2019).
Moravia, Alberto et al. (1975), Contro Roma. Milano: Bompiani.
Pasolini, Pier Paolo (1962), La ricotta (dt.: Der Weichkäse), film.
- (2003), Tutte le poesie I. Milano: Mondadori.
Pontuale, Dario (2017), La Roma di Pasolini. Dizionario urbano. Roma: Nova Delphi.
Reitz, Edgar, "Film Art on Air. Gideon Bachmanns Gespräche mit Kino-Persönlichkeiten 1955–1997". In http://zkm.de/edgar-reitz-gideon-bachmann-der-vasari-des-films (consultato il 19.01.2019).
Trotta, Margarethe von (1981), Die bleierne Zeit, film.
Unterman, Alan (2011), Historical Dictionary of the Jews. Plymouth: The Scarecrow Press.
Permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-52018/403