Entusiasmo poetico o fanatismo estetico? Claudio Cantelmo e i vaticini dell’artista
Dopo aver seguito l’evolversi del significato del termine 'fanatico' nell’italiano, il saggio passa ad enuclearne le caratteristiche alla luce delle teorie psicanalitiche di Günter Hole e di André Haynal applicandole infine all’analisi del personaggio dannunziano di Claudio Cantelmo. Ne risulta una sorprendente concordanza che va dall'originaria esperienza straniante della Roma parlamentare post-unitaria, all'elaborazione di teorie alternative all’imperante ideologia democratico-progressista, tendenti ad esaltare la forza e i pregi del singolo individuo che per nascita o per carattere eccelleva dalla folla. La persuasione di essere nel giusto, l’energia psichica e la capacità di elaborare gli impulsi culturali dell’epoca rendono Cantelmo un esteta, pronto però a ricorrere alla violenza per imporsi in nome di un bene percepito come universalmente valido e ora in pericolo. La mancanza di empatia con quanto avviene nel mondo e nelle persone portano sia il fanatico reale che il personaggio dannunziano all’inevitabile fallimento dei loro piani.
L'odierna frequenza nell'uso dei termini 'fanatico' e 'fanatismo', come pure di 'fondamentalista' e 'fondamentalismo', induce a una riflessione filologica che delimiti le aree di significato. Chiara l'etimologia latina del primo termine: fanaticus deriva da fanum indicante la parte più sacra del tempio, fanum o fasnum rimanda a fas che indica la parola, il comandamento divino e dalla stessa radice far / for derivano fatum e fatus, il dire divino, i detti dell'oracolo (Georges 1998, 2686-2701). In seguito il termine fanaticus passa ad indicare i sacerdoti del culto frenetico-orgiastico della dea Ma Bellona, d'origine orientale. Dal Grande Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia s'apprende che il vocabolo 'fanatico' compare per la prima volta nell'italiano nel XIV secolo con la traduzione in volgare delle Deche di Tito Livio (Battaglia 1995, 629, col. 3) e lo stesso uso, limitato alla descrizione del fenomeno della diffusione in Roma dei culti di Cibele, Iside e Bellona, si ritrova nelle opere di Benedetto Varchi e di Jacopo Nardi (ibid.). Solo più tardi, con l'affermarsi delle teorie razionaliste e scientifiche tra Sei e Settecento, il vocabolo viene usato per indicare un particolare atteggiamento dell'individuo, il rigorismo di una dottrina religiosa o politica, una fede o convinzione, lo zelo del seguace, di chi adempie a principi; perciò si definisce 'fanatico' chi "è esaltato violentemente da passioni, da sensazioni […] incontrollabili e torbide", chi "si trova in uno stato di turbamento psichico", chi è "ispirato da sacro furore", oppure chi è "frenetico, […] fervido, inebriante, esaltato […]" (Battaglia 1995, 629s.), al di fuori dell'ambito più strettamente religioso. Nella maggior parte delle citazioni riportate dal dizionario la connotazione del termine è negativa, riflettendo sia l'assiologia del nuovo ciclo culturale che tentava di sostituire la civiltà del dovere con quella dei diritti (Bidussa 2016, XXI); sia la scala di valori positivistica e borghese della seconda metà dell'Ottocento, come pure l'individualismo e lo scetticismo moderni. Negli autori ottocenteschi il termine 'fanatico' si trova spesso attribuito alle masse ignoranti, poco propense alla riflessione. In Inghilterra (ivi, XXIII e Shaftesbury 2016, 24-29), Germania e Francia[1] il termine assume una sfumatura assente in Italia in quanto all'epoca delle guerre di religione del XVI e XVII secolo erano considerati fanatici gli appartenenti alle nuove minoranze religiose.
Ovviamente più tarda è la comparsa del termine 'fanatismo': la prima citazione riportata dal Battaglia è tratta dalle opere di Giambattista Vico (Battaglia 1995, V, 630, col. 2) e fa riferimento all'atteggiamento dei primi uomini nei confronti del divino, all'inizio della storia della civiltà umana. Altrimenti il termine è usato per indicare un movimento, un fenomeno che coinvolge le masse seguaci di dottrine o di falsi profeti, oppure, nei tempi più recenti, le mode culturali. Infatti, la contrazione del termine in fan indica moderni fanatici, le cui manifestazioni esagerate vanno dall'adorazione del loro idolo fino a fenomeni di estasi in sua presenza o di disperazione, automutilazione e morte in caso di lontananza o morte del medesimo (cf. Hayal 1980, 56). Comune a tutti gli ambiti di significato è l'accentuazione religiosa del termine, perché ciò che ha permesso il passaggio dall'ambito del sacro a quello profano delle dottrine politiche, delle teorie filosofiche o delle mode culturali è la sacralizzazione di queste e dei loro capi, come pure lo spostamento e diversificazione dell'attesa messianica che le accomuna: "le fanatisme ne peut se séculariser […] Il apparaît hors du sacré traditionel quand il y a sacralisation d'un domaine originellement profane [...]" (ibid., 54).
Più ristretto il significato di 'fondamentalista' e 'fondamentalismo' che secondo il Dizionario del Battaglia denomina il rigido orientamento teologico di alcune chiese protestanti americane e dei loro adepti (Battaglia 1970, 123, col. 2). Mentre all'epoca della redazione del volume non si trovavano riscontri negli autori italiani, secondo il teologo e psichiatra Günter Hole, nell'uso corrente attuale, 'fondamentalismo' e 'fanatismo' indicano lo stesso fenomeno quando fanno riferimento a "eine durch die Persönlichkeitsstruktur mitbedingte, auf eingeengte Werte und Inhalte bezogene persönliche Überzeugung von hohem Identifizierungsgrad" (Hole 2004, 44, corsivo dell'autore); 'fanatico' e 'fanatismo' invece hanno un significato ulteriore perché implicano anche aspetti legati alla struttura psichica degli individui, come p.es. l'intensità e l'energia con cui si perseguono i propri scopi, l'incapacità di dialogo, la ricerca di conferme (Selbstbestätigung), come pure l'aggressività e distruttività dei mezzi usati per combattere, in buona coscienza, quanto viene ritenuto diverso e ostile (cf. ivi).
Enucleando ora brevemente le cause che possono determinare il fanatizzarsi[2] di individui e movimenti, vorrei sottolineare in primo luogo l'importanza del contesto storico in cui avviene la radicalizzazione. Infatti, cambiamenti storici, economici e sociali possono mettere in crisi le strutture identitarie di una persona di per sé tendente al fanatismo, o di un gruppo, per cui al disagio ideologico si risponde con un appello alle proprie tradizioni e consuetudini socioculturali caricandole di significato positivo e giustificandole in base alla loro antichità nei confronti di una modernità minacciosa. Tuttavia, esse sono sempre il risultato di una costruzione selettiva, di un pensiero impoverito, che prende come punti di riferimento particolari momenti storici, teorie, libri fondanti o personalità carismatiche, ignorandone altri. Il tradizionalismo può quindi diventare fondamentalista e fanatico assumendo di volta in volta i contenuti storico culturali del tempo e del luogo in cui si verifica la radicalizzazione e mobilitando alla protesta molte persone. Un elemento distingue però il fanatismo dal tradizionalismo: la sua visione nettamente dualistica per cui quanto appartiene al proprio mondo ed è antico diventa necessariamente positivo, mentre il diverso, il moderno sono demonizzati, considerati distruttori e perciò da distruggere. Forti le attese soteriologiche legate al ritorno alla tradizione, all'affermazione della propria fede o teoria perché sono percepite come l'unica via di salvezza propria o del gruppo, vissuta però come valore universale. Ne consegue il bisogno di assoggettare il resto del mondo, di fare adepti per la battaglia finale contro il Nemico. In attesa della nuova apocalisse – momento fondamentale che segna il passaggio al nuovo regno della pace in una società rinnovata o riportata ai valori ritenuti giusti e assoluti – accanto alla sacralizzazione dell'impegno politico e delle dottrine avviene una generale desacralizzazione della vita, di quella altrui, che non è più da rispettare, soprattutto quando offende la verità dei propri principi; ma neanche della propria, che è da offrire in sacrificio per il raggiungimento della meta finale, fino all'estetizzazione della morte e del sacrificio di sé, propria ai movimenti politici autoritari.[3] Il passaggio alla violenza è però sempre legato a condizioni storiche particolari, per cui è importante distinguere tra il momento della radicalizzazione e quello successivo della violenza e del terrorismo.[4]
Sarebbe tuttavia un grave errore credere che solo le personalità disturbate (ibid., 130s.) o gli individui / gruppi marginalizzati siano attratti da dottrine o da movimenti fanatici. L'analisi degli atti terroristici degli anni settanta o dei più recenti, come p.es. l'attacco alle Twin Towers a New York, mostrano una realtà difficilmente spiegabile con le sole teorie sociali, perché gli esecutori hanno spesso una formazione universitaria e provengono da famiglie agiate. La loro radicalizzazione è da intendersi come una rivolta contro un sistema ritenuto ingiusto e falso, contro una situazione vissuta come umiliante. Per spiegare il superamento dell'inibizione ad uccidere altri o se stessi in nome di un ideale o della nostalgia per un mondo perfetto si fa normalmente ricorso a categorie dell'inconscio, quali p.es. la freudiana pulsione di morte, sulla cui natura o esistenza il dibattito nella psicanalisi è ancora attuale. Oppure si ricorre all'odio e all'aggressività, concordemente riconosciuti quali componenti essenziali costitutive della psiche umana con funzione di autodifesa, perché permettono di superare frustrazioni, sentimenti di colpa e paura proiettando sull'altro, sul diverso la causa del male e del proprio disagio (cf. Arundale 2011, 153s.).
Considerando quindi la questione dal punto di vista dell'individuo che si fanatizza, è necessario sottolineare i molteplici vantaggi di carattere psicologico che se ne possono trarre. Seguire gli insegnamenti di una personalità carismatica, identificarsi con un ideale o una dottrina soprattutto quando questa è semplice, chiara, infallibile, porta alla soddisfazione dei bisogni narcisistici del singolo, rafforzando la percezione e coscienza di sé[5] e potenziando quindi la propria personalità; la vita ritrova uno scopo e un senso che aiutano a superare crisi identitaria, umiliazioni, disagio e senso d'impotenza. In genere il fanatico si unisce a gruppi con una struttura organizzativa autoritaria, con capi indiscussi e infallibili e con una chiara delimitazione tra sé e gli altri; la morale individuale passa qui in secondo piano soppiantata da quella comune. Tuttavia il ruolo assunto all'interno del gruppo dipenderà dalla struttura psichica della persona e dal suo modo di essere fanatico. Günter Hole, sulla distinzione fondamentale tra "essentielle" e "induzierte Fanatiker" (ibid., 51, 54), elabora una tipologia di sei caratteri fanatici,[6] pur sottolineandone l'instabilità, dovuta alla dinamica psichica dell'individuo che permette il passaggio da un tipo all'altro – o di mettere in rilievo alcuni tratti invece di altri – per adattarsi alle circostanze in cui viene ad operare. Tale tipologia ha un indubbio valore conoscitivo in quanto aiuta a distinguere i tratti principali in cui può manifestarsi un carattere fanatico e a elaborare strategie per la loro neutralizzazione.
Chiariti tali presupposti, tra i molti esempi letterari mi soffermo ad analizzare il protagonista de Le vergini delle rocce, Claudio Cantelmo, un personaggio dai tratti del fanatico essenziale e più precisamente del tipo espansivo e attivo,[7] con chiare idee e soprattutto un forte programma politico per la cui realizzazione si dichiara pronto a battersi con il ricorso ad ogni mezzo possibile: la sua energia primaria è rafforzata da fattori caratteriali quali l'ambizione, il bisogno di farsi valere e la volontà di dominio. Fattori scatenanti per l'elaborazione di una Weltanschauung alternativa al pensiero corrente sono in Cantelmo sia il fascino esercitato su di lui da filosofia ed arte che l'esperienza personale della perdita di prestigio delle gerarchie sociali in cui si riconosce, frustrazione sublimata in un ideale estetico vissuto come salvezza propria e del mondo. Nel romanzo, scritto tra il 1892 e il 1895, l'autore rielabora le teorie estetico-filosofiche e sociologiche di fine Ottocento come risposta alla crisi di valore attraversata dall'Italia all'esaurirsi dello slancio idealistico risorgimentale, quando lo Stato italiano era messo a confronto con gravi problemi interni, economici, sociali e identitari che coinvolgevano ampie fasce di popolazione. Tra scandali e episodi di corruzione Roma, ormai capitale d'Italia, si stava dotando delle infrastrutture necessarie alla sua nuova funzione e all'accoglienza dei cittadini a lei fluenti da tutte le parti del Regno. La nuova mentalità scientifico-positivista, tesa verso il conseguimento del progresso sociale ed economico, favoriva però anche l'avidità di guadagno della nuova classe dirigente di estrazione borghese la cui affermazione scontentava sia i gruppi aristocratici, sia le masse urbane e rurali, attratte dalla nuova grande utopia politica del socialismo. Sullo sfondo delle violente lotte politiche e sociali di quegli anni, l'autore giudicando i tempi ancora "importuni" al combattere per l'affermazione delle sue idee, intendeva prendere "un bagno nell'acqua di virtù",[8] ossia scrivere un ciclo di romanzi puri in cui pur essendoci "l'apparizione della potenza",[9] l'azione fosse incanalata verso mete più socialmente compatibili, come p.es. il desiderio del protagonista di garantirsi una progenie adeguata a diventare "il Superuomo, futuro re di un rinato impero latino." (Andreoli 2000, 252) La violenza tornerà ad essere attuale quando una parte delle tesi qui esposte - la supremazia della razza latina e il ruolo di Vate dell'artista, diffuse non da ultimo tramite la letteratura - andranno a rafforzare il discorso interventista non di Cantelmo, ma di D'Annunzio.
Per quanto riguarda la forma, Le vergini delle rocce è un romanzo di matrice simbolista che mette in discussione il modello narrativo del genere per essere quasi privo di azione; mostra inoltre tratti del romanzo a tesi in quanto tendente "a dimostrare la verità di una dottrina politica, filosofica, […]" (Pouzet 2005, 270) e del romanzo-poema per la sua "scrittura antinarrativa ed emblematica" (Lorenzini 1989, 95, 1151); la mancanza di azione è compensata da lunghe descrizioni di un accentuato lirismo favorito dal ruolo omodiegetico del narratore-protagonista. I molteplici rimandi culturali e simbolici, a cominciare dal titolo che riprende l'omonima opera di Leonardo da Vinci, e le diverse tematiche ivi trattate rendono il testo piuttosto dispersivo. La tensione narrativa si sviluppa sull'antitesi tra le descrizioni di una civiltà estenuata, soggetta a rapidi cambiamenti politico-sociali, e le idee, i progetti pervasi dall'energia e dalla volontà superomistica di dominio del protagonista che la vorrebbe redimere. Tuttavia l'azione resta sospesa e il piano del protagonista sembra fallire, in quanto l'autore non ne scriverà mai il seguito pur avendo annunciato in calce al testo il titolo del volume successivo del ciclo dei Romanzi del Giglio.[10]
Illustr. 1. Copertina di Le vergini delle rocce (Mondadori 2013)
Largo spazio trova invece il processo di radicalizzazione del protagonista, Claudio Cantelmo voce narrante del romanzo, presentato come ultimo discendente di un'antica e illustre famiglia aristocratica, per carattere e status sociale portato ad eccellere sulla massa. D'Annunzio lo ritrae sulla soglia della giovinezza, quando sbolliti i primi ardori, riflette su se stesso alla ricerca del senso da dare alla propria vita per farne "un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative" (Vergini delle rocce, 12). Nell'Italia, e nell'Europa, di fine Ottocento era ovvio cercare modelli di vita e di pensiero nella cultura e filosofia greca: Socrate incarnava il maestro ideale, anche se i valori etico-cognitivi della ricerca della verità propri della filosofia platonica erano filtrati a fine Ottocento dalla sensibilità decadentista e simbolista che privilegiava i valori estetici. Perciò il Socrate interlocutore del Cantelmo, presentato come esempio massimo di libertà di pensiero e di vita, di coerenza anche di fronte alla morte, diventa da maestro di vita maestro di stile e campione di hybris (ὕβρις). Il detto socratico "Io non obbedisco se non all'Iddio" (VdR, 13) viene trasformato in: "Io non obbedisco se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera" (VdR, 13), dove stile, concetto fondamentale per l'arte, significa l'unità e l'integrità della persona, l'aspirazione all'ordine in sé e nel mondo (cf. Marabini Moevs 1976, 36-38). La convinzione propria alla filosofia dell'Idealismo tedesco, che attribuiva all'estetica – in quanto non soggetta alle restrizioni della logica e della morale – una maggiore libertà di pensiero e quindi di comprensione del mondo, costituisce il nucleo della teoria che vuole l'Artista nel ruolo di Vate, di guida. Ruolo che il Cantelmo si assumerà alla fine del suo processo di maturazione iniziato con l'elezione di Socrate a maestro che insegna ai suoi allievi a rispettare il proprio δαίμων, il proprio genio ispiratore,[11] e li spinge a ricercare le proprie verità riflettendo su di sé.
Così l'Antico [Socrate] […] m'insegnò a ricercare e a scoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti […]. E m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia immagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. (VdR, 18)
Il cammino della conoscenza di sé, chiamato la "disciplina assidua" della riflessione, porta il Cantelmo a riconoscersi come prodotto di "tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita serie di generazioni" (VdR, 18), e a ipotizzare l'esistenza di una "virtù della stirpe", concetto di derivazione nietzschiana, da cui trarre ulteriore forza identitaria perché in netta antitesi con le tendenze democratiche e ugualitarie del tempo:
La virtù della stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenèia, mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l'orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici stesse della mia sostanza – là dove dorme l'anima indistruttibile degli avi – sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un'epoca in cui la vita pubblica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore. (VdR, 18s.)
Completano l'universo identitario del Cantelmo la figura di Leonardo da Vinci e la cultura del Rinascimento, epoca in cui gli artisti, emancipatisi dal ruolo di artigiani, avocavano a sé il rango di filosofi e di scienziati, mentre le famiglie signorili affidavano loro il compito di dare lustro alle loro dinastie ornando le proprie dimore o città, riconoscendo quindi all'arte un ruolo di prestigio in netto contrasto con la logica utilitarista di fine Ottocento. Leonardo da Vinci, artista completo e uomo universale, apparteneva a questo nuovo tipo di artista-filosofo e nel romanzo è presentato come maestro di un antenato guerriero particolarmente caro al protagonista, Alessandro Cantelmo.[12] Alessandro diventerà il secondo interlocutore e la nuova guida di Claudio nel momento in cui, maturata la consapevolezza e conoscenza di sé, si tratterà di passare alla messa in pratica delle idee e convinzioni.
"O tu" egli mi diceva impadronendosi della mia anima col suo magnetico sguardo "sii quale devi essere." - "Per te [Alessandro] sarò " io gli diceva "per te sarò qual debbo essere […]; poiché io voglio riporre tutto il mio orgoglio nell'obbedire alla tua legge, o dominatore." (VdR, 39)
Il passaggio da Socrate a Leonardo e a Alessandro Cantelmo avviene tramite libere associazioni: un particolare nel racconto dell'ultima notte di Socrate morente - la carezza alle lunghe chiome di Fedone, discepolo prediletto, omaggio alla bellezza del mondo sensibile - evoca le chiome di Alessandro Cantelmo, allievo di Leonardo, che Claudio conosceva da un ritratto. Alessandro incarna l'ideale dell'uomo rinascimentale, in cui si compenetrano sapere, bellezza, forza, coraggio, nobili natali e morte tragica, un aspetto che accompagna costantemente la tematica superomistica. È lui ad indicargli la missione da compiere: il dovere di perpetuare una stirpe virtuosa, perché spetta agli aristócrati, ossia ai migliori, degni di dominare, la funzione di governare; in questo testo gli aristócrati appartengono alla classe nobiliare.
[…] Tu non crederai […] di essere soltanto principio, motivo e fine del tuo proprio fato, ma sentirai tutto il pregio e tutto il peso dell'eredità che hai ricevuta dai tuoi maggiori e che dovrai trasmettere al tuo discendente contrassegnata dalla tua più gagliarda impronta. […] Triplice è il tuo compito, dunque, poiché tu hai il dono della poesia e ti studii di acquistare la scienza delle parole. Triplice è il tuo compito: - condurre con diritto metodo il tuo essere alla perfetta integrità del tipo latino; adunare la più pura essenza del tuo spirito e riprodurre la più profonda visione del tuo universo in una sola suprema opera d'arte; preservare le ricchezze ideali della tua stirpe e le tue proprie conquiste in un figliolo che, sotto l'insegnamento paterno, le riconosca e le coordini in sé per sentirsi degno d'aspirare all'attenzione di possibilità sempre più elevate. (VdR, 40s.)
Con un pessimismo degno di Machiavelli, il protagonista afferma però che il dominio si esercita con la forza perché: "Il mondo non può essere costituito se non sulla forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie" (VdR, 30) e si giustifica con l'incapacità delle masse di essere libere: "Le plebi restano sempre schiave avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli" (VdR, 31). I dominatori in questo testo dannunziano svolgono però un duplice compito: quello di dominare, ma anche quello di creare, abbellire il mondo esistente:
Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi amplificato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. (VdR, 12)
Perciò in un'appassionata invettiva dai toni ironici il protagonista si rivolge ai 'poeti smarriti e scoraggiati' che si chiedono: "Qual può essere oggi il nostro ufficio? Dobbiamo esaltare in senarii doppii il suffragio universale […] l'avvento delle Repubbliche, l'accesso delle plebi al potere?" (VdR, 28) incitandoli a perseguire il cammino estetico ricorrendo anche alla violenza, qualora necessaria:
Difendete la Bellezza! […] il sogno che è in voi […]. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. […] Difendete il Pensiero ch'essi [gli stallieri della gran Bestia = i sostenitori del sistema democratico] minacciano, la Bellezza ch'essi oltraggiano! […] Non disperate essendo in pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione! (VdR, 29)
Il credo antipositivistico del Cantelmo arriva ad affermare che la vita sociale senza il contributo dell'arte s'abbasserà fino al punto in cui anche le masse riconosceranno la necessità delle élite e ne invocheranno il ritorno al potere:
Quando tutto sarà profanato, quando tutti gli altari del Pensiero e della Bellezza saranno abbattuti, […], quando la vita comune sarà discesa a tal limite di degradazione che sembri impossibile sorpassarlo […] allora la Folla si arresterà presa da un panico ben più tremendo di quanti mai squassarono la sua anima miserabile […] non vedendo innanzi a sé alcuna via e alcuna luce. Allora scenderà su di lei la necessità degli Eroi; ed ella invocherà le verghe ferree che dovranno nuovamente disciplinarla. Ebbene[…]io penso che questi Eroi, che questi nuovi Re della terra debbano sorgere dalla nostra razza e che fin da oggi tutte le nostre energie debbano concorrere a prepararne l'avvento prossimo o lontano. Ecco la mia fede. (VdR, 153)
Perciò il secondo appello del Cantelmo è rivolto agli aristocratici che la rivoluzione francese aveva fisicamente distrutto e politicamente esautorato dalla loro posizione egemonica, esortandoli a recuperare i loro ruoli favorendo la creazione di uno stato oligarchico "per domare le moltitudini". (VdR, 31). Infatti l'esperienza personale avvilente che costituisce la base dell'elaborazione aristocratica del suo pensiero è la trasformazione della Roma patrizia nella capitale d'Italia e la perdita di potere dell'istituzione monarchica e ecclesiastica a favore dello stato democratico parlamentare:
Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie […] Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso del decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto (VdR, 43)
La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un'anima senile ma ferma nella consapevolezza de' suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un'altra dimora inutilmente eccelsa dove un Re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l'officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe. (VdR, 19s.)
Il quotidiano spettacolo di degrado induce il protagonista a lasciare la città per ritirarsi in campagna, in una delle dimore avite. L'antitesi tra la "citta infetta" (VdR, 41), teatro della speculazione e delle lotte di potere, e la campagna silenziosa e deserta dell'Agro Pontino con le sue maestose rovine romane e l'orizzonte segnato da catene di montagne rocciose, è fondamentale nel testo perché costituisce lo sfondo ideale di morte, grandezza e forza cui si ispirano le riflessioni del protagonista in cerca dell'essenzialità: "Se lo spettacolo di quel deserto vorace è un sinistro ammonimento per un popolo vano, esso è per il solitario l'ispiratore delle più sfrenate ebrezze che possano trascinare un'anima" (VdR, 20). La funzione della campagna è duplice, da un lato essa costituisce lo stimolo alla riflessione e all'elaborazione dell'"ideal tipo latino"; dall'altro suscita intensi sentimenti e emozioni favorendo le sue creazioni poetiche. Dalle due seguenti citazioni risulta chiaro quanto afferma Hole (2004, 53) sulla difficoltà di distinguere l'entusiasmo che nasce dal processo creativo, dall'energia più propriamente fanatica sempre tesa a raggiungere con ostinazione i fini preposti e alla ricerca di autoconferme:
Solo, senza consanguinei, senz'alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine – come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo – il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideal tipo latino. […] L'aspetto della campagna […] m'era di continuo esempio e di continuo stimolo […] Ma la virtù mirabile di tale insegnamento [della campagna] […] mentre mi portava a conseguire nella mia vita interiore l'esattezza di un disegno studiato, non inaridiva le fonti spontanee della commozione e del sogno, anzi le eccitava a un'attività più alta. D'improvviso un solo pensiero mi diveniva così intenso e così ardente che m'appassionava sino al delirio, come una speciosa forma creata da un prestigio; e tutto il mio mondo n'era sparso d'ombre e di luci nuove. Un getto di poesia erompeva dall'intimo empiendomi l'anima di musica e di freschezza ineffabili; e i desideri e le speranze s'alzavano con felice ardire. (VdR, 22s.)
Nell'Agro Pontino il protagonista si ritira per realizzare il terzo compito affidatogli dall'avo, la procreazione di un figlio destinato a far rinascere la Terza Roma, paragonabile per grandezza alla Roma imperiale romana e alla Roma Caput Mundi del Cristianesimo. Non si tratta però solo di obbedienza, il protagonista pur vivendo la sua solitudine eroicamente, come mezzo di autoesaltazione e di indipendenza-dominio sugli altri, sente il bisogno di comunione con "il fraterno spirito non incontrato ancora o con un'adunanza di spiriti predisposti ad appassionarsi sinceramente di ciò che mi appassionava" (VdR, 32), e il bisogno di affidare a un figlio "l'officio di ripetermi" (VdR, 33) secondo l'idea che nella stirpe e nel sangue si mantengano e si trasmettano le eccellenze. Perciò il viaggio alla volta del castello avito assume la valenza simbolica del νόστος, un viaggio a ritroso nel tempo, non tanto alla ricerca delle proprie radici, quanto a conferma della propria identità e del proprio volere. Infatti il Cantelmo si reca a Rebursa, nella "prediletta delle […] terre ereditarie" (VdR, 56) dove si conservano i simboli di un ordine antico non inficiato dai nuovi pensieri di democrazia ed uguaglianza:
Rebursa si levava […] con le sue quattro torri di pietra, ancor bella e forte, mostrando ancora intatta l'impronta dell'orgoglio originario, distendendo la sua ombra e la sua dominazione su una gente gagliarda in cui l'obbedienza e la fedeltà si trasmettevano di padre in figlio come caratteri della sostanza vitale. (VdR, 56)
Nelle vicinanze di Rebursa vive la famiglia principesca dei Capece Montaga, i cui figli – due maschi e tre femmine – amici d'infanzia del Cantelmo, pagano in solitudine il ritiro del padre dalla vita mondana, la sua fedeltà al Re borbonico destituito, i sogni di Restaurazione del Regno delle due Sicilie e la follia della madre (cf. VdR, 83). In loro l'attaccamento alle tradizioni, senza una reazione vitale di contrasto, è negazione della vita, il che si riflette nel carattere passivo e nella malattia delle persone. Claudio Cantelmo, senza badare alla contraddizione con le decantate regole dell'eugeneia, cerca tra le tre principesse la sposa ideale per creare il discendente, "quell'Uno in cui dovevano trasmettersi tutte le ricchezze ideali della mia gente e le mie proprie conquiste e le perfezioni materne" (VdR, 159). I rapporti con gli ex compagni di giochi si presentano impari fin dal primo incontro dopo anni di assenza. Claudio si sente come il loro salvatore: "io era liberale di me a quei due indigenti, li riscaldavo alla mia fiamma[…] Leggevo già nei loro occhi […] una specie di sommessione e dedizione fiduciosa. Essi già mi appartenevano entrambi; ed io poteva esercitare su loro il beneficio e il predominio senza fallire" (VdR, 51). Li rende quindi compartecipi ai suoi piani: "Sentivo già che essi mi amavano e che io li amavo[…], e che la loro sorte stava per congiungersi alla mia sorte indissolubilmente." (VdR, 54) Ancor più complesso e impari il rapporto instaurato con le tre malinconiche sorelle, perché se il Cantelmo è loro pari in dignità aristocratica, è tuttavia un uomo che arriva circondato dall'aura di una vita più prestigiosa, "un reduce dalle città magnifiche apportatore d'un soffio di quella grande vita a cui esse avevano rinunziato" (VdR, 5), dotato del potere di scegliere una di loro facendone la sua sposa. Più che veri personaggi dotati di una loro indipendenza di carattere, le tre sorelle sono rappresentate secondo la tipologia femminile della madre, della santa e dell'etera: Violante, la maggiore, bellissima e scontrosa, è l'ispiratrice dei poeti, la più portata a indagare il mistero della natura, a riscoprirne le forme eterne e le analogie con il destino degli uomini; Anatolia, la secondogenita, si presenta come la più energica e sana, la donna-madre che saprebbe elevare l'uomo ai fini più nobili, mentre Massimilla, la più giovane, votata alla clausura, è animata da un'ambigua cupio dissolvi religiosa. Unite nel loro dolore, nel chiuso del loro giardino, esse formano una "trinità" (VdR, 117) che il Cantelmo, affascinato dalla sua completezza, sogna di poter soddisfare e dominare:
L'una […] vegliava sul figlio del mio sangue e della mia anima; e l'altra […] viveva nell'intimo fuoco de' miei pensieri; e l'altra mi richiamava al culto religioso del corpo e conveniva meco in segrete cerimonie per insegnarmi a rivivere la vita degli antichi iddii. Tutte sembravano nate a servire le mie volontà di perfezione in terra. E il doverle disgiungere l'una dall'altra mi offendeva come un disordine, mi irritava come un sopruso del pregiudizio e del costume. (VdR, 97)
Nelle lunghe passeggiate insieme il protagonista prova ad immaginarsi la vita con ciascuna di loro ed esita a compiere la sua scelta per timore delle sofferenze e gelosie che ne nascerebbero. Su questi indugi interviene sempre di nuovo l'avo esortandolo a portare a termine il suo compito, a non temere il dolore e a fidarsi della forza creatrice della poesia: "Procedi sicuro e libero. Non avere sollecitudine se non di vivere" (VdR, 59). "Nulla nel mondo va perduto; e cose inaudite possono talora nascere dalle lacrime" (VdR, 118). "La tua poesia, come la tua volontà, è senza limiti. Tutto nasce ed esiste, intorno a te, nasce ed esiste per un soffio della tua volontà e della tua poesia. E pur nondimeno tu vivi nell'ordine delle cose più reali, perocché nulla al mondo sia più reale di una cosa poetica" (VdR, 117). La scelta cade infine su Anatolia, la più generosa delle tre sorelle, l'anima della casa. La messinscena paesaggistica della dichiarazione di Claudio a Anatolia mette in rilievo l'imprevista risposta della donna: infatti in un vertiginoso paesaggio superomistico di rocce, sul bordo di un cratere vulcanico, in un atmosfera resa ancor più tesa da un potente scampanio, Claudio avanza la sua richiesta e se la sente respingere. Perché Anatolia, silenziosa presenza al colloquio in cui Claudio chiedendo la mano di una delle figlie esponeva all'anziano genitore la sua dottrina e i suoi piani di riscatto aristocratico, coglie meglio del protagonista stesso alcuni tratti del suo carattere e rifiuta la sua richiesta in nome dell'incompatibilità dei ruoli che avrebbe dovuto sostenere: quello di sposa e madre presso l'ambizioso Cantelmo e quello autoassegnatosi di custode della precaria salute mentale e fisica della sua famiglia:
Ho ancora l'anima allucinata dalla fiamma dei vostri sogni ma turbata da non so qual violenza contenuta e quale ardore pericoloso che di tratto in tratto apparivano in voi. Una volontà di lotta e di predominio vi agita; e voi vorreste con ogni mezzo costringere la vita a mantenervi le sue promesse. Siete giovine, e fierissimo del vostro sangue, e padrone della vostra forza, e sicuro nella vostra fede. Chi può assegnare un limite alla vostra conquista? (VdR, 185)
Un finale sorprendente, che stride con tutta la messinscena della volontà superomistica, del riscatto aristocratico e della 'virtù della stirpe', in sintonia però con una caratteristica importante del fanatico: la sua mancanza di empatia con l'altro e quindi la sua incapacità di capirne e prevederne le reazioni.
Mettendo ora a confronto il pensiero e il comportamento di Claudio Cantelmo con le tesi esposte da Hole e da Haynal circa i tratti e i bisogni psichici che caratterizzano il fanatico è possibile trovare diversi punti concordanti per cui si ribadisce la tesi esposta all'inizio di questo testo, secondo la quale il Cantelmo sarebbe un personaggio dai forti tratti fanatici. Innanzitutto la trasformazione di Roma vissuta dal protagonista come estraniante potrebbe corrispondere all'esperienza di una "unverkraftete persönliche Kränkung oder Beeinträchtigung" (Hole 2004, 87) che spinge il fanatico attivo, mosso da interessi personali, all'azione. Un'agire che in un primo tempo consiste nell'elaborare con "Intensität und Nachhaltigkeit" (ibid., 52) una visione sociale e artistica alternativa, in netto contrasto con le ideologie dominanti, e considerata la salvezza dai mali del tempo. L'appello ai grandi modelli storici di cultura e di pensiero, il presentarsi come loro discepolo, rafforza anche in Cantelmo l'autostima, il senso di sé e il bisogno "nach absoluter Gültigkeit der vertretenen Idee" (ibid., 53). In più passaggi il Cantelmo cita la grande energia che nasce in lui dal dedicarsi con esclusività alla riflessione, paragonabile all'entusiasmo della creatività poetica, ma anche all'energia fanatica (ivi) che spinge il protagonista a cercare verifiche in prove di coraggio estreme, velleitarie ed estetizzanti: "Più volte, dopo una meditazione esaltante, divorato da un furioso bisogno di prove, lanciai il mio cavallo contro una troppo alta maceria e, superando il pericolo inutile, sentii che sempre e dovunque avrei saputo morire." (VdR, 21) Lo stesso "Drang zum Extrem" (Hole 2004, 51) si mostra in questo testo negli esercizi retorici aggressivi e violenti rivolti in forma di appello ai poeti e ai patrizi affinché si ribellino e combattano con ogni mezzo lo stato vigente; la stessa esortazione si ritrova nel discorso tenuto al padre delle tre principesse: "io voglio dirvi che per noi e per i nostri pari non v'è omai salvezza se non a patto di sostituire il proposito energico all'inutile speranza." (VdR, 151) Anche il proposito di garantirsi una progenie cui affidare il compito di realizzare la terza Roma, presentato nel testo come missione affidata dall'avo, risulta un'interpretazione riduttiva e persino ridicola della teoria nietzschiana degli eterni ricorsi e della "virtù della stirpe", come non mancano di rilevare i critici.[13] Tuttavia essa è coerente con la personalità del fanatico che, nonostante l'intelligenza di cui può dare prova, compie scelte spesso in contraddizione con i suoi interessi o principi perché nel modo di pensare fanatico "enorme und tiefgehende Einengungen auf kognitiver und affektiver Ebene stattfinden" (Hole 2004, 60). In genere tali errori sono dovuti all'urgenza delle pulsioni inconsce, ai bisogni narcisistici che fanno anteporre le reazioni emotive alla razionalità. Nel caso del progetto procreativo la fissazione sui pregi e sui gradi della stirpe aristocratica fa passare in secondo piano considerazioni più realistiche quali lo stato di salute della famiglia; la fissazione su "Colui che deve venire" (VdR, 117) fa trascurare al Cantelmo i sentimenti della donna e dei suoi familiari. Il suo narcisismo, che si prefigurava il nascere di sentimenti di concorrenza e inimicizia tra le sorelle per il privilegio di essere la prescelta, viene ridimensionato dal consiglio di Anatolia di sposare Violante. Non privo di coerenza con la mentalità fanatica del protagonista, incapace di compromessi, risulta lo sviluppo del ciclo di romanzi secondo quanto D'Annunzio accenna all'amico Morello: nei testi successivi era prevista infatti la morte di Anatolia, che avrebbe reso il rifiuto meno scottante e la successiva morte di parto di Violante, la sposa di ripiego, che avrebbe però dato la vita al testimone di una stirpe "in cui sieno nati e si sieno conservati per un lungo ordine di secoli i sogni più belli, i sentimenti più gagliardi, i pensieri più nobili, i voleri più imperiosi." (VdR, 156)
Una critica da parte dell'autore ormai invecchiato alla sua creazione è contenuta nel Libro segreto e non è priva di interesse per la valutazione complessiva del carattere del Cantelmo e della teoria della virtù della stirpe, nucleo fondamentale del libro. Se il demónico aveva esortato il protagonista a non porsi limiti o restrizioni di nessun tipo "Non sapevi che la tua anima fosse giunta a tale maturità e a tanta pienezza. La felice rivelazione ti viene dal bisogno che provi, subitaneo, di versare la tua dovizia, di spanderla, di prodigarla senza misura. Tu ti senti inesauribile, capace di alimentare mille esistenze" (VdR, 57) a lui risponde l'autore: "[…] riderò del vanesio che volle non soltanto divenire quel che era ma abolire interamente i suoi confini e rivivere tutte le vite, riesperimentare tutte le esperienze, togliere a tutti il meglio di ciascuno per atteggiarlo ed esaltarlo nella sua unica volontà […]" (D'Annunzio 1989, 1143).
Zitierhinweis:
Vignazia, Adriana (2017), "Entusiasmo poetico o fanatismo estetico? Claudio Cantelmo e i vaticini dell'artista." In lettere aperte vol. 4, 27-40. [online https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-4-2017/331]
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