Topologia della morte femminile in Sessanta racconti e Il Colombre e altri cinquanta racconti di Dino Buzzati

Life, death, and the portraits of women in Dino Buzzati’s short stories are heterogeneously distributed throughout the central decades of the twentieth century. In his collection Sessanta racconti (1959), the female presence is quite scarce and confined to peripheral roles, whereas in Il Colombre e altri cinquanta racconti (1966), women and young girls gain significant weight, occasionally becoming main characters. Furthermore, the time span between these collections intersects with the death of the author’s mother, Alba Mantovani, in 1961. A systematic comparison of the two books inspired by cell biology reveals that the topological interaction between female figures and death undergoes a significant transition. Indeed, it is only in Il Colombre e altri cinquanta racconti that women move close to death, becoming capable of dying and killing. This analysis allows for the narration of a story encoded in space that reveals a profound shift in Dino Buzzati's perception of the feminine essence following his maternal bereavement.

La vita, la morte e i ritratti delle donne nei racconti brevi di Dino Buzzati sono distribuiti eterogeneamente lungo i decenni centrali del Ventesimo secolo. Nella sua raccolta Sessanta racconti (1959), la presenza femminile è piuttosto scarsa e confinata a ruoli periferici, mentre ne Il Colombre e altri cinquanta racconti (1966) le donne e le ragazze giovani acquistano un peso significativo, diventando occasionalmente personaggi principali. Inoltre, l’arco temporale tra queste raccolte intercetta la morte della madre dell'autore Alba Mantovani nel 1961. Un confronto sistematico di una selezione di racconti ispirato alla biologia cellulare rivela che l’interazione topologica tra le figure femminili e la morte subisce una transizione significativa. Infatti è solo ne Il Colombre e altri cinquanta racconti che le donne si avvicinano alla morte, diventando capaci di morire e uccidere. Questa analisi permette di narrare una storia codificata nello spazio che rivela una profonda mutazione della percezione della essenza femminile da parte di Dino Buzzati in seguito al lutto materno.

   

 

Introduzione

«Chi scrive non è fisico né chimico», diceva Dino Buzzati nel racconto L’Elefantiasi[1]. In questo caso, invece, chi scrive è fisico, per la precisione biofisico[2]. Naturalmente, lo sguardo al testo risente fortemente di un’attenzione ben diversa rispetto alla tradizione umanistica. Eppure, l’approccio scientifico al processo di analisi e comparazione può rivelare importanti substrati nascosti della letteratura e, in particolare, può aiutare a comprendere il legame tra il tema del femminile e quello della morte nei racconti di Dino Buzzati e come esso sia variato in seguito alla perdita della madre.

La presenza femminile nelle prime produzioni, come Bàrnabo delle montagne e Il segreto del bosco vecchio, è molto limitata e comincia a emergere timidamente negli anni Trenta, come conferma Antonio Daniele: «Il deserto dei Tartari è il primo romanzo nel quale le occorrenze femminili (del genere umano, s’intende) sono regolari e numerose, non sporadiche e occasionali»[3]. Ne Il deserto dei Tartari una donna ricopre un ruolo importante, purché secondario, mentre un’altra appare in modo ancor più marginale. Si tratta della madre del protagonista e di un vecchio amore di gioventù, figure alle quali Antonia Veronese Arslan attribuisce una parte in penombra:

Non si pone neppure, nel Deserto, il problema di completare la propria personalità attraverso un legame amoroso: la donna è vista come momentaneo oggetto di piacere oppure come vaga nostalgia di un focolare (surrogato di quello materno): non una precisa donna, ma un elemento femminile abbastanza generico e impreciso, simbolo, al massimo, di un fascino che altri esercitano.[4]

Nell’analisi della donna nelle opere di Dino Buzzati la critica si è spesso concentrata sul ruolo che essa assume rispetto all’uomo, come se fosse un satellite del pianeta maschile. Le due donne de Il deserto dei Tartari sono definite maggiormente sulla base della propria relazione con il giovane sottotenente e non in modo autodeterminato sulla base, ad esempio, del proprio ruolo sociale o lavorativo. A questo proposito, Felix Siddell scrive che «the female point of view in the evocation of a sense of place is largely absent in Buzzati and the female is instead depicted as part of the eternal world of a male world view, ineffable and separate from the observer»[5]. Nel libro intervista Dino Buzzati: un Autoritratto di Yves Panafieu, Buzzati stesso indica un ruolo secondario, di spalla, per la donna:

Panafieu: Per te la donna è un corpo, un’anima, un’intelligenza oppure un carattere?...

Buzzati: Direi un corpo e un carattere... Se non ha un corpo, purtroppo, la donna può andar bene come compagna di viaggio, ma niente di più... Della cultura della donna non mi preoccupo. Ed ecco un aspetto per cui il concetto di superiorità dell’uomo sulla donna ha un sedimento anche in me... Io per esempio non avrei mai sposato una donna scrittrice... No. Non si può dire “non avrei mai sposato”, perché se me ne innamoravo, tutto veniva travolto... Ma voglio dire che mi fanno senso quei colleghi scrittori che hanno sposato una scrittrice... È una cosa terribile!... La vita dev’essere impossibile... T’immagini?... Io sono qui che scrivo il mio capolavoro e di là nell’altra stanza c’è lei che scrive il suo capolavoro e dice “Ah quel povero Dino, cosa crede di scrivere, quel povero imbecille?...” No. Non è tollerabile, per mio conto. Ed ecco qui, anche, un sedimento della vecchia mentalità dell’uomo sopra la donna!...[6]

Dopo gli anni Sessanta, le donne popolano con gran vigore le produzioni buzzatiane e sono spesso caricate di essenze erotiche, come si vede nel romanzo Un amore del 1963, nel quale la figura femminile è una maligna dominatrice dell’uomo. Parlando di questa pubblicazione, Arslan nota che «il monologo buzzatiano sembra rispecchiare la polarizzazione del pensiero su un’unica ossessione: che nell’ultimo romanzo è appunto l’amore, e mette per un momento in sottordine l’altra ossessione: la morte»[7]. La morte è infatti un tema prevalente nell’intera produzione buzzatiana, presente attraverso il decesso dei personaggi o incarnata in un personaggio in modo più o meno esplicito, oppure ancora simboleggiata in elementi ambientali. Il discorso di Un amore viene ripreso nella graphic novel Poema a fumetti del 1969, della quale sempre Arslan scrive «il tema dell’odio-amore e della non sopita diffidenza dell’architetto [Buzzati] verso le donne, la sua immaturità insomma, si trasforma, qui, in un rapporto fra eguali»[8].

Eppure, è poco chiaro come la morte cambi nel tempo i propri rapporti rispetto alla questione femminile. Una significativa e repentina mutazione del legame tra i due temi si può riscontrare nelle due raccolte di racconti Sessanta racconti[9], una selezione del 1958 di storie già pubblicate e inediti valsa allo scrittore il Premio Strega, e Il Colombre e altri cinquanta racconti[10] (da qui, Il Colombre), del 1966. Commentando la prima, Silvia Zangrandi scrive che «l’importanza rivestita dalla raccolta risiede propria nel fatto che riunisce la produzione di un ventennio […] e rappresenta una panoramica della produzione buzzatiana»[11], mentre circa Il Colombre la stessa studiosa osserva che «i racconti sono tutti inediti ma non portano innovazioni riguardo ai temi trattati fino a quel momento: la visione del mondo buzzatiano è ormai chiaramente e saldamente indirizzata»[12]. Il motivo per il quale queste due raccolte sono significative in questo contesto è la semplice osservazione che, pur mantenendosi su temi e toni simili, nella prima le donne non muoiono mai[13], mentre nella seconda l’evento accade ripetutamente. Nonostante quanto detto riguardi entrambe le raccolte per intero, nel presente lavoro l’analisi è limitata a sei racconti tratti da Sessanta racconti e sei da Il Colombre nei quali il rapporto tra donna e morte è affrontato in modo particolarmente diretto o evidente, così da facilitare l’indagine pur rappresentando le opere nel loro complesso. La constatazione generale concernente la morte dei personaggi femminili appena espressa si può accostare ad un evento decisivo nella vita di Dino Buzzati che divide le due pubblicazioni: il decesso di sua madre Alba Mantovani nel 1961. Yves Panafieu nota che

I critici non hanno completamente sbagliato quando hanno parlato di una svolta: c’è, è del tutto evidente, un’intensificazione delle referenze al personaggio femminile dopo il 1960. Questa prima risposta, che illustra eloquentemente il numero di schede raccolte in questo campo, non esaurisce tuttavia il problema. Poiché questa svolta potrebbe avere solo un valore statistico e non implicare necessariamente un capovolgimento della percezione della donna e della sua immagine.[14]

Non stupisce che si osservino delle correlazioni tra un mutamento nella produzione buzzatiana e la scomparsa della madre, in quanto lo scrittore manifesta per la propria madre una «smisurata devozione»[15] considerando quello materno come «l’unico tipo di amore»[16] anche se, come osserva Paola Bottino, «come un fantasma di cui si può parlare meglio una volta che è svanito, la figura materna assume consistenza, nella letteratura e nelle interviste, solo dopo la sua scomparsa»[17]. Numerosi studi, tra cui quelli recenti di Daniela Bini[18] o Alessandro Vallarino[19], sottolineano il forte impatto della figura materna, con la quale lo scrittore ha vissuto per 54 anni, sulla sessualità di Buzzati. Silvana Valle evidenzia le conseguenze dirette della scomparsa di Alba Mantovani sulla psiche del bellunese e quindi sulla sua produzione, compresa quella pittorica:

Facendo di nuovo un salto associativo dalla produzione letteraria a quella grafica, pittorico-testuale ritroviamo ampi e leggibili riferimenti a scene edipiche, nella produzione pittorica di Buzzati posteriore al ’61, data della morte della madre. Certamente data significativa, che schiude un’esplosione rappresentativa che il complesso legame transferale con la madre aveva fino ad allora reso impossibile[20].

Così l’eros, spesso accostato all’Aldilà o alla morte, diventerà uno dei temi maggiormente caratterizzanti della tarda produzione di Buzzati nonostante, come messo in luce da Sharon Wood[21], le radici delle rappresentazioni del binomio donna-morte presenti in Un Amore, Poema a Fumetti e Il grande ritratto (1959) si possano già ritrovare in forma più attenuata nelle prime pubblicazioni dell’autore bellunese. Alla luce di queste considerazioni, in questo lavoro si avanza l’ipotesi che sia proprio la morte della madre a cambiare la percezione dell’autore rispetto al legame tra la morte e il femminile. Per evidenziare gli elementi testuali che supportano la tesi si utilizzerà un metodo di indagine ispirato a una strategia tipica della biologia cellulare. In questo caso, quello che si prenderà in prestito dalle cosiddette hard sciences per investigare il «capovolgimento della percezione della donna»[22] avvenuto a cavallo del 1961 non sono i metodi quantitativi o computazionali, ma gli schemi logici e le procedure analitiche. Già in altri contesti, infatti, il confronto tra scienza e letteratura ha portato al riconoscimento di strette analogie tra fenomeni fisici e testi letterari e ad esempio la fisica dei buchi neri ha permesso di approfondire l’analisi del racconto I sette messaggeri di Buzzati[23].

 

Metodo

Nella metodologia proposta in questo lavoro si cerca di trattare i racconti delle due raccolte di Dino Buzzati in esame come se fossero due gruppi di cellule, dove uno si trova allo stato naturale (detto “controllo”) e l’altro invece ha subito un trattamento indotto dai ricercatori, ad esempio genetico o biochimico, o un’alterazione naturale, come una malattia. In un esperimento di biologia di questo genere, tipicamente si misura la stessa variabile nei due campioni e in base alle differenze osservate si possono avanzare dei modelli per descrivere i processi cellulari sottostanti. Spesso in biologia si indaga il funzionamento delle cellule utilizzando delle molecole fluorescenti (dette fluorofori) per osservare direttamente il comportamento delle proteine, uno dei principali componenti di ogni cellula. La fluorescenza è la capacità di alcune molecole, sia di origine naturale che sintetica, di assorbire la luce di un colore, ad esempio blu, e riemetterla ad un altro di minore energia, ad esempio verde. Attraverso sofisticate tecniche biochimiche, è possibile rendere fluorescente un singolo tipo di proteina su circa diecimila tipi diversi contemporaneamente presenti nelle cellule umane e poterla così vedere al microscopio[24]. Di solito è possibile utilizzare fino a tre o quattro diverse molecole fluorescenti contemporaneamente, dove ciascuna corrisponde a una diversa proteina o, più in generale, a una parte di un componente biochimico della cellula come il DNA.

Spesso, le immagini ottenute attraverso la fluorescenza sono utilizzate per studiare la topologia della cellula che, seppur quasi mai chiamata esplicitamente con questo termine in biologia, indica lo “studio del luogo” e che in matematica e fisica diventa lo studio delle proprietà spaziali o geometriche di qualcosa, sia uno spazio fisico sia concettuale. In biologia cellulare la topologia è uno strumento molto efficace per capire i processi interni delle cellule o per corroborare delle ipotesi sulle interazioni molecolari. In particolare, frequentemente si osserva la posizione del segnale fluorescente proveniente da una molecola, ad esempio una proteina, rispetto a quello proveniente da un altro fluoroforo legato ad un’altra proteina. Poi i molteplici segnali provenienti da una o più immagini molto complesse vengono ridotti a un solo numero, una quantità adimensionale (senza unità di misura) e si costituisce così un parametro che permette di confrontare direttamente cellule provenienti da gruppi sperimentali differenti. In questo modo, dal confronto diretto del parametro tra il campione di controllo e quello alterato si possono comprendere, ad esempio, dei processi cellulari di base o, per esempio, l’effetto di un reagente chimico quale potenziale terapia farmacologica.

L’esempio riportato in Fig.1 illustra quanto appena descritto: nell’articolo di Eftekharzadeh et al.[25] (Fig.1), la colocalizzazione tra due proteine (il cui nome abbreviato è Tau e Nup98) viene monitorata in cellule di pazienti malati di Alzheimer e pazienti sani per capire come la malattia cambi l’interazione tra le due molecole. Il parametro costituito dalla percentuale di proteine colocalizzate permette di confrontare in modo oggettivo e quantitativo le immagini provenienti da gruppi diversi. Nel lavoro di Kapinos et al.[26] (Fig.2), invece, sono stati indagati alcuni meccanismi fondamentali delle cellule eucariote monitorando la posizione di una proteina (in breve chiamata MG) rispetto al nucleo cellulare in presenza e in assenza di un trattamento biochimico (un’incubazione di un’ora nel cosiddetto Ran mix). In questi studi, come in molti altri del settore, il cambiamento della posizione delle proteine monitorate è stata la conseguenza di una modifica dei meccanismi cellulari e la sua osservazione ha permesso agli sperimentatori di corroborare la propria tesi. Senza soffermarci sui meccanismi molecolari in gioco, è utile ai fini dell’analisi letteraria qui proposta notare una differenza tra i due esempi: nel lavoro di Eftekharzadeh et al. vengono osservati quanti “puntini colorati” corrispondenti a singole molecole Tau (verde in Fig.1) e Nup98 (rosso in Fig.1) si sovrappongono, in quello di Kapinos et al., invece, si misura quanto segnale di MG (verde in Fig.2) provenga da una certa area (blu in Fig.2). Inoltre, è importante constatare che la variazione della distanza tra due elementi può essere molto eloquente a patto che questi si scelgano tra la moltitudine disponibile seguendo due criteri. Il primo è che i due siano coinvolti nel processo sotto esame, in modo più o meno diretto, e quindi siano affetti dall’azione esercitata. Il secondo è che la variazione del parametro osservato (ad esempio la distanza tra le due molecole fluorescenti) tra il campione di controllo e quello “alterato” sia sufficientemente ampia da poter essere rilevata sperimentalmente. Se queste condizioni sono soddisfatte, allora lo studio topologico diventa uno strumento logico efficace.

Figura 1 In questo esempio tratto da Eftekharzadeh et al., sono confrontate due immagini al microscopio a fluorescenza ad alta risoluzione (a sinistra) ottenute da tessuti dell’ippocampo provenienti da pazienti sani (riga superiore) e malati di Alzheimer (AD, riga inferiore). La prima colonna (verde) mostra il segnale proveniente dalla proteina tau e la seconda (rossa) da Nup98, le due proteine di interesse. La terza indica la posizione del colorante Hoechst, che si lega al DNA per mostrare la posizione del nucleo ed è utilizzata solo come riferimento. La quarta colonna è la sovrapposizione degli altri tre segnali. A destra è mostrato il confronto quantitativo della colocalizzazione tra la proteina tau (verde) e Nup98 (rosso), ovvero quante molecole “rosse” e “verdi” in percentuale si trovano nella stessa posizione. Questo parametro permette di confrontare direttamente il controllo e le cellule di pazienti con Alzheimer. Riprodotto da Eftekharzadeh et al., con permesso di Cell Press.

Figura 2 Questa figura tratta da Kapinos et al. Mostra la localizzazione di MG rispetto al nucleo cellulare. A sinistra sono mostrate le immagini del microscopio a fluorescenza provenienti (riga superiore) dalle cellule di controllo e (riga inferiore) da cellule trattate con Ran mix per un’ora. Nella prima colonna, DAPI è una molecola fluorescente che identifica l’area corrispondente al nucleo perché si lega al DNA. MG, in verde nella seconda colonna, è una proteina monitorata perché la sua capacità di entrare nel nucleo (e quindi sovrapporsi con il segnale blu) dipende da meccanismi molecolari difficilmente rilevabili direttamente, i quali costituiscono l’oggetto principale dello studio. L’immagine di MG nel controllo è più brillante sul bordo dei nuclei rispetto all’interno, mentre nel caso di Ran mix 1h il segnale di MG diventa più intenso dentro il profilo del nucleo. A destra il confronto quantitativo tra i due scenari attraverso come quantità relativa di MG nel nucleo rispetto alla media del campione di controllo. Riprodotto da Kapinos et al. con permesso di Rockefeller University Press.

 

Questi metodi derivati dalla biologia possono essere applicati a I sessanta racconti e Il Colombre individuando nel testo gli elementi che possano rappresentare, in un certo senso, le proteine fluorescenti e analizzandone la distribuzione nello spazio. Gli oggetti della narrazione, infatti, possiedono delle caratteristiche topologiche nella quali possono essere codificate delle informazioni necessarie al lettore per ricostruire e comprendere una trama[27]. L’origine di questo modello interpretativo risiede nella teoria della conceptual metaphor di George Lakoff, secondo la quale la comprensione di concetti complessi e astratti si avvale di metafore basate su esperienze fisiche concrete[28]. Secondo Lakoff, le metafore non sono solo strumenti linguistici usati nella poesia o nel discorso retorico, ma sono fondamentali per il nostro pensiero quotidiano e derivano dalla nostra esperienza fisica e corporea del mondo. Ad esempio, la nostra mente struttura il concetto astratto di tempo in termini di spazio fisico che ci induce a costruire espressioni come «il futuro è davanti a noi» o «lasciare il passato alle spalle». Lakoff ha successivamente collaborato con il neuroscienziato Vittorio Gallese per sviluppare la cosiddetta teoria della embodied simulation, secondo la quale i nostri cervelli ricreano o simulano le azioni, le emozioni e le sensazioni descritte dalle parole per comprendere il linguaggio. Ad esempio, quando sentiamo la parola “correre”, i sistemi neurali coinvolti nella pianificazione e nell’esecuzione dell’azione di corsa si attivano: «conceptual knowledge is embodied, that is, it is mapped within our sensory-motor system»[29]. Questo meccanismo è reso possibile proprio perché il nostro cervello è in grado di utilizzare i cluster di neuroni appartenenti al sistema senso-motorio per simulare le esperienze descritte dal linguaggio[30]. Il legame tra parola e movimento è radicato molto a fondo nel nostro sistema neurale e ha delle origini evoluzionistiche, come ha proposto Erik Jarvis nella sua teoria sulla nascita del linguaggio parlato nota come “motor theory”[31], secondo la quale i circuiti neuronali responsabili dell’apprendimento del linguaggio si sono formati in diverse specie animali da una duplicazione dei circuiti del controllo motorio. Questo tipo di studi scientifici di base ha permesso di investigare più a fondo il modo in cui i lettori ricostruiscono il senso di una storia[32] e, attraverso uno sguardo topologico in questo contesto, Marzia Beltrami suggerisce che «if causality might even be the most common strategy to ensure such coherence, it is not the only one. Spatiality is a complex dimension of experience that can provide patterns and templates equally capable of making sense also of fictional experience»[33]. In questo senso lo scrittore può codificare informazioni e trame parallele all’interno dello spazio e il lettore le ricompone anche in assenza di una struttura causale nella narrazione.

Tornando a Dino Buzzati muniti di questo framework teorico, possiamo constatare come ne I sessanti racconti e Il Colombre la morte sia fisicamente presente nei racconti come luogo, persona, o simbolo e diventi quindi embodied. Questa caratteristica della produzione buzzatiana, che richiama fortemente la teoria espressa da Lakoff, ci permette di individuare nella rappresentazione della morte una delle due osservabili, ovvero una delle due “molecole fluorescenti”, mentre l’altra è naturalmente costituita dai personaggi femminili, che incarnano una proiezione diretta del concetto astratto di “donna”. L’interazione topologica tra questi due elementi all’interno dei racconti, che diventa il parametro con cui effettuare confronti, può avvenire sia in modo statico, ovvero le posizioni di morte e donna restano invariate per tutta la narrazione, oppure dinamico, dove almeno uno dei due si muove rispetto all’altro, ad esempio avvicinandosi o allontanandosi. Proprio come le cellule negli esperimenti di biologia, anche i racconti di Buzzati possono essere raccolti in due gruppi da confrontare con il parametro scelto: quelli de Sessanta racconti, ovvero le “cellule di controllo”, e quelli de Il Colombre, affetti dalla perdita della madre e quindi corrispondenti alle “cellule trattate o alterate”.

Monitorare la posizione relativa tra queste due “molecole fluorescenti” attraverso la lettura sistematica e cronologica dei racconti permette alla spazialità tra donna e morte di formare una storia che attraversa le due raccolte. I movimenti nello spazio, infatti, sono parte dell’esperienza di lettura e contribuiscono alla comprensione della narrazione: «As narratology begins to consider the embodied features of storytelling, it becomes important to trace how the notation of the different kinds of movement in mind and body contributes to how readers experience the “march” of story events»[34]. Nel caso riguardante donna e morte, il rapporto topologico tra i due cambia bruscamente tra la prima e la seconda pubblicazione: le donne, o le ragazze, restano distanti dalla morte in Sessanta racconti, mentre le si avvicinano o addirittura sovrappongono ne Il Colombre. I testi di Buzzati si prestano facilmente a questo tipo di analisi in quanto lo scrittore bellunese affida molto della propria espressività allo spazio, come è già stato largamente mostrato per il Deserto dei Tartari da Bruno Porcelli[35], e anche ai luoghi, a proposito dei quali Alvaro Biondi nota che «ogni luogo fisico diventa luogo metaforico e metafisico»[36]. Utilizzando la stessa logica applicata in biologia, si può avanzare l’ipotesi che la variazione del parametro non sia solo significativo, ma che evidenzi una correlazione tra il cambiamento nel rapporto donna-morte in Buzzati e il lutto materno, fornendo così un supporto alla proposta di un nesso causale tra i due.

 

Analisi testuale

Una selezione di racconti delle due raccolte, sei di Sessanta racconti e sei di Il Colombre, verrà sistematicamente esaminata analizzando il parametro, appunto, della distanza donna-morte. Uno dei più celebri racconti de Sessanta racconti, Il mantello[37], tratta la storia del giovane soldato Giovanni che ritorna dal fronte e va a trovare la propria madre a casa. Nonostante le gioie e le premure della donna, l’uomo si mostra piuttosto evasivo ed è atteso da un misterioso personaggio fuori dal cortile:

[la madre:] “è lì che aspetta? E perché non l’hai fatto entrare? L’hai lasciato in mezzo alla strada?”

[la madre] andò alla finestra e attraverso l’orto, di là dal cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. (p. 78)

Giovanni indossa un mantello e il lettore capisce rapidamente che serve al soldato a coprirsi delle profonde ferite sul suo corpo e che l’attendente è la morte. Infine, dopo un saluto alla madre e ai fratellini, l’uomo e la morte galoppano assieme verso le montagne. La morte, quindi, trascorre l’intero episodio fuori dalla casa, dove la madre, donna, regna. È l’uomo a compiere le traslazioni, avvicinandosi dapprima alla madre e poi allontanandosi con la morte. La madre e la morte non si colocalizzano mai e mentre l’ambiente interno è caratterizzato da calore e parole affettuose, quello esterno è grigio e spento. È solo sull’uscio che la madre scopre che cosa si cela sotto il mantello e la transizione spaziale, da dentro a fuori, accompagna la presa di coscienza dei familiari riguardo alla ferita di Giovanni:

[Giovanni] Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero addosso e Pietro sollevò un lembo del mantello per sapere come il fratello fosse vestito di sotto. “Pietro, Pietro! su, che cosa fai? lascia stare, Pietro!” gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse. “No, no!” esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.

“Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?” balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. “Giovanni, ma questo è sangue!”

Devo andare, mamma” ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza “L’ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma.”

Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. (p. 82)

Un altro fondamentale esempio è Sette piani[38]. Giuseppe Corte ha una malattia innominata che viene trattata in un ospedale specializzato, dove la presenza femminile è rappresentata principalmente dalle infermiere, anche se parte del personale paramedico è uomo. È attraverso le infermiere che Giuseppe Corte scopre, come un visitatore, che l’ospedale ha sette piani e ogni piano, dall’alto al basso, corrisponde ad un diverso grado di severità. I pazienti al settimo piano hanno sintomi molto leggeri, mentre quelli in basso, al primo, sono terminali. Il viaggio verso la morte è quindi dall’alto al basso. Giuseppe Corte è traslocato dall’ultimo al primo piano in seguito a circostanze apparentemente di poco conto – o almeno tali le percepisce lui e il lettore. Le infermiere in brevi e sporadiche comparse portano notizie con disinvoltura e disinteresse, senza essere coinvolte, o empatiche, con le pene e le preoccupazioni dei malati. Prima di morire, le infermiere e gli infermieri che si prendono cura di lui portano la spensierata vita del «mondo dei sani» nella sua condizione malata. Quando Giuseppe raggiunge il primo piano, quello di chi sta per morire, un’infermiera diventa il suo ultimo rinfrescante contatto con il mondo. Appena lei esce dalla stanza, l’oscurità, l’angoscia e il silenzio entrano, facendo intendere al lettore che sia giunta l’ora di Giuseppe Corte:

Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d’ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? (p. 50-51)

Quando la morte sta per entrare nella stanza, l’infermiera esce e i due non occupano la stessa posizione.

Similmente, non ci sono donne descritte ne L’uomo che volle guarire[39], la storia del lebbroso Mseridon portato in un lazzaretto dal quale non è mai uscito nessuno, dove i morituri sono segregati dalla città. Mseridon, però, è motivato a guarire attraverso la preghiera e nella sua spiegazione compaiono per la prima volta le donne. Simbolo sì di lussuria, ma appartenenti al mondo di fuori: «“Laggiù [fuori dal lazzaretto] ci sono i miei cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere schiave adolescenti aspettano che torni”»[40]. Appena gli è concesso di varcare l’uscita, l’uomo guarda al mondo e, deluso dalla vanità, Mseridon decide di tornare indietro. Buzzati elenca alcuni elementi tra quelli del mondo esterno: potere, ricchezza e, in particolare, le donne, che non appartengono al lazzaretto mortifero con i prigionieri malati, tutti maschi, e le guardie. La morte è dentro, assieme agli uomini, mentre la vita, piena di lussi e sfarzi, è fuori con le donne. I due mondi sono segregati e la “molecola fluorescente” corrispondente al femmineo non penetra nella regione dei morti, similmente a quanto osservato nel secondo esempio preso dalla biologia cellulare, riportato in Fig. 2.

Una distribuzione spaziale simile avviene in altre due memorabili storie dei Sessanta racconti: Eppure battono alla porta e I topi. In Eppure battono alla porta,[41] si mette in grande rilievo la figura della matrona Maria Gron, col cui nome si apre il racconto. Lei, pilastro della casa e garante delle tradizioni, è, con la sua presenza, argine al sentimento di morte che si avvicina progressivamente, rappresentando un emblematico esempio di uno schema tipico di Buzzati[42]. Episodi misteriosi di massicci oggetti spostati introducono lentamente l’inquietudine nella storia e il lettore capisce gradualmente che un’inondazione si sta avvicinando alla casa. Si creano così due luoghi: la «fortezza domestica», dove si cerca di continuare la vita quotidiana protetti da Maria Gron, e l’esterno, buio e piovoso, da cui giungono suoni misteriosi e minacciosi. L’acqua, presentata come una minaccia angosciante, è spazialmente separata dalla donna, che difende strenuamente la vita e la mondanità, finché le mura di casa vengono permeate dai flussi. La donna e l’antagonista erano inizialmente separati nello spazio, ma, quando non c’è più nulla da fare per Maria Gron contro l’inarrestabile pioggia, l’interazione topologica diventa, per usare un termine della fisica, repulsiva: la donna esce, quasi magicamente, dalla stanza, sparendo dietro la tenda e rifiutandosi di trovarsi nello stesso luogo dell’acqua mortifera. Infine, però, nonostante l’ineluttabile forza dell’acqua, la madre la affronta e sparisce:

“Oh, no! no!” ricominciò a gridare la signora. “Non voglio, non voglio!” Pallida anche lei come la morte, una piega dura segnata sul volto, ella avanzò a passi ansiosi verso il tendaggio che palpitava. E faceva di no col capo: per significare che lo proibiva, che adesso sarebbe venuta lei in persona e l’acqua non avrebbe osato passare.

 La videro scostare i lembi sventolanti della tenda con gesto d’ira, sparire al di là nel buio, quasi andasse a cacciare una turba di pezzenti molesti che la servitù era incapace di allontanare. Col suo aristocratico sprezzo presumeva ora di opporsi alla rovina, di intimidire l’abisso? Ella sparì dietro il tendaggio, e benché il rombo funesto andasse crescendo, parve farsi il silenzio. (p. 75)

È solo a questo punto, dopo che la madre-matrona è uscita di scena, che nel salotto, vero protagonista della storia, entra la piena consapevolezza della morte, chiudendo il racconto in modo non lontano da quello di I sette piani precedentemente analizzato.

I topi[43] è un racconto dalla struttura simile a Eppure battono alla porta, dove una crescente minaccia mortifera assalta un’altra “fortezza domestica”, ma dalla conclusione diametralmente opposta, con la donna completamente circondata dagli invasori. Ne I Topi, una colonia di roditori prende lentamente il controllo di una casa[44], mentre la coppia governante Elena e Giovanni Corio negano l’insorgere del problema. Il narratore, un amico della coppia, osserva il lento e ineluttabile avanzamento dei topi, in una progressione che segue da vicino il modello tipico di Dino Buzzati come era successo in Eppure battono alla porta. Nel testo la famiglia e i topi non sono mai nello stesso ambiente (a parte il primo avvistamento di un «minuscolo topo […] così grazioso e fragile»[45] da parte del narratore), eccetto per la scena conclusiva quando ormai gli animali dominano completamente la casa e tengono schiava Elena. La donna è completamente circondata da roditori affamati, ma è la sua presenza a conferire una parvenza di anima e vita alla villa:

[Elena] Era in cucina, accanto al fuoco, vestita come una pezzente; e rimestava in un immenso calderone, mentre intorno grappoli fetidi di topi la incitavano, avidi di cibo. Sembrava stanchissima ed afflitta. Come scorse l’uomo che guardava, gli fece con le mani un gesto sconsolato, quasi volesse dire: “Non datevi pensiero. È troppo tardi. Per noi non ci sono più speranze”. (p. 266)

Se in Eppure battono alla porta la matrona esce dalla stanza mentre l’acqua entra e raggiunge la famiglia, in I topi la donna resta sola, unico residuo del focolare domestico, e i roditori sembrano aver fatto sparire gli altri abitanti della casa.

Una storia peculiare all’interno della collezione Sessanta racconti è Non aspettavano altro[46] , dove la giovane Anna ha il ruolo dai co-protagonista assieme al fidanzato Antonio. La trama può essere divisa in tre momenti (a cui corrispondono tre luoghi): nel primo, la coppia arriva in una città straniera molto calda e riscontra dei problemi mentre vaga in cerca di un modo per rinfrescarsi e riposarsi. Nel secondo, Anna trova refrigerio presso una fontana, riservata tuttavia ai bambini, quindi la folla infuria contro di lei. Nel frattempo, Antonio assiste inerme alla scena litigando con alcuni individui a causa di Anna. Nel terzo e ultimo momento i due sono gettati dalla folla in una cella sospesa, messi alla gogna pubblica, scherniti e maltrattati. Anna, fortemente provata dalla situazione, allunga la propria mano oltre le sbarre della cella per avvicinarla a un grillo, invocando la propria madre come per chiederle aiuto. L’analisi topologica rivela che la posizione relativa dei tre elementi (uomo – donna – folla) si evolve con la trama e che questo racconto presenta importanti similitudini con I topi: dapprima, la coppia è assieme e l’ambiente è loro ostile, poi la coppia è divisa mentre le persone infuriate accerchiano Anna, infine i giovani sono nuovamente assieme, costretti e minacciati dalla folla la cui ira insiste sui due, ma è la donna a mantenere una fievole lingua di vita, proprio come Elena Corio de I topi.

Adottando brevemente il gergo scientifico, si può dire che ne Il Colombre i valori assunti dalla variabile “posizione donna-morte” cambiano significativamente, in modo simile a quanto accade nelle proteine fluorescenti nelle cellule “alterate” rispetto a quelle di controllo nei due esempi tratti dalla biologia qui proposti. In questo senso è emblematico I due autisti[47], dove Buzzati affronta direttamente la morte della propria madre Alba Mantovani e la spazialità diventa l’elemento portante dell’architettura narrativa. Il racconto è costituito dalle riflessioni in prima persona dell’autore circa la conversazione che i due becchini stanno avendo mentre trasportano la salma dall’ospedale al cimitero: «A distanza di anni, ancora mi domando che cosa si dicevano i due autisti del furgone scuro mentre trasportavano la mia mamma morta al cimitero lontano»[48]. Questa, dice l’autore, è l’ultima conversazione che Alba Mantovani sentirà. È un viaggio dal nostro mondo all’Aldilà, un movimento verso la morte che si compie svegli:

Mi domandavo di che cosa stessero parlando perché quello era l’ultimo discorso umano, le ultime parole della vita che mia mamma poteva udire […]. Erano le ultime parole umane che mia mamma poteva udire perché subito dopo l’arrivo sarebbe cominciata la funzione nella chiesa del cimitero e da quel momento i suoni e le parole non sarebbero appartenuti più alla vita, erano i suoni e le parole dell’aldilà che cominciavano. (p. 375)

Il fulcro del racconto è il trapasso dal mondo dei vivi a quello dei morti, che avviene con uno spostamento fisico. Questo elemento topologico connette fortemente I due autisti con La ragazza che precipita e Suicido al parco. La ragazza che precipita[49] è la storia della diciannovenne Marta che si lancia giù dalla sommità di un grattacielo e, invecchiata, muore all’impatto con il suolo. La ragazza si muove in uno spazio enorme verso la morte, la destinazione finale del suo viaggio, che raggiunge in un tempo lunghissimo scandito progressivamente. Questo, si ricordi, non è mai successo in I sessanta racconti, dove al contrario le donne cambiavano luogo quando sopraggiungeva la morte, una sua rappresentazione simbolica o un antagonista. Con lei, inoltre, ci sono molte altre ragazze giovani e spensierate, ma nessun uomo.

Suicidio al parco[50] è un altro racconto che mette in risalto l’idea di spostarsi fisicamente incontro alla morte. Faustina è così innamorata del fidanzato Stefano che per soddisfare la sua passione per le automobili si trasforma in una bellissima macchina lei stessa[51]. Quando l’ammirazione dell’uomo per la ragazza-automobile svanisce, lei fugge e si suicida, senza peraltro Stefano a bordo:

Attraversati gli incroci di corso Garibaldi e quindi di viale Montello a crescente velocità, la macchina ha svoltato a sinistra e quindi a destra infilando viale Elvezia, e infine è andata a sfasciarsi contro l’antico rudere sforzesco che sorge ai limiti del Parco incendiandosi e andando distrutta. (p. 257)

La topologia del suicidio, ovvero lo schianto, è la medesima de Ragazza che precipita: il moto verso la morte. Mentre Marta ne Ragazza che precipita è in ultimo spaventata dalla fugacità del tempo e dalla morte, Faustina le va incontro per scappare a più grande dolore.

Un rapporto donna-morte radicalmente differente, vicino a quanto si trova in Un amore, è presente in Schiavo[52], dove Luigi comincia gradualmente a credere che la propria moglie Clara voglia ucciderlo avvelenando dei biscotti. Con un meccanismo narrativo incredibilmente sofisticato, il lettore, assieme al protagonista, è quasi persuaso che le cose non stiano così, ma contemporaneamente si rende conto che i biscotti sono veramente avvelenati. Matthew Reza accosta la spirale narrativa di questo racconto a quella di Sette piani notando che non si capisce se le circostanze «siano legate per via della sua [di Clara] intenzione di uccidere il marito, o se siano avvenimenti casuali che nell’insieme danno l’impressione di un complotto; una dilatazione del paradigma culturale che si riscontra anche in Sette piani, dove comunque l’ambiguità è alla fine risolta»[53]. Le corde della dominazione si avvolgono lentamente ai polsi di Luigi che infine supplica Clara di fargli mangiare i dolcetti fatali. Una donna è sorgente della morte, non della vita, e la muove verso l’uomo «Era un paradiso, la morte, perché veniva da lei»[54]. La presenza, lo spostamento e la partenza sono dei temi ricorrenti in tutto il racconto ed è attraverso la spazialità che è descritto il rapporto tra i due personaggi. Il racconto si apre infatti con Luigi che entra in casa, prosegue con un lento avvicinamento e culmina in una discussione densa di verbi di moto a supporto delle minacce di Clara:

Ah, sono avvelenati, sono? Hai paura che ti facciano bua? E sai allora cosa faccio? Vado a sbatterli nella spazzatura!» levatasi da tavola prese il vassoio con le pastefrolle avviandosi alla cucina, e alzava sempre più la voce. «Vado a sbatterli nella spazzatura!... Ma in questa casa un minuto di più non ci rimango! È da un pezzo che ne ho piena l’anima! Io me ne vado me ne vado! Se Dio vuole non ti vedrò mai più! (p. 275)

concludendosi con la definitiva presenza di entrambi (e della morte) all’interno delle mura domestiche: «Clara era ancora lì, Clara non se ne sarebbe andata, con abbietto sollievo dell’animo, Luigi prese un pasticcino e voracemente lo addentò»[55].

Nella conclusione della raccolta viene compiuta l’unificazione tra donna e morte (o meglio, diavolo), nel racconto lungo Viaggio agli inferni del secolo[56]. Senza addentrarci nell’analisi dettagliata di un testo ricco di molte tematiche, molte delle quali poi riprese in Poema a fumetti, Viaggio agli inferni del secolo racconta la spedizione di Dino Buzzati nelle veci di giornalista dentro l’Inferno. La porta di accesso per gli inferi è stata trovata nei cantieri della metropolitana di Milano. Qui, Buzzati scopre che i diavoli sono donne, “diavolesse”, che da remoto seviziano gli uomini attraverso schermi e leve fino a ucciderli, in due mondi distinti ma connessi.

Abbiamo quindi osservato, finora, come il parametro distanza donna-morte sia molto efficace nella descrizione della connessione tra questi due concetti in Dino Buzzati. Infatti, il moto della donna come “molecola fluorescente” verso un’area corrispondente alla morte ha permesso di rilevare correlazioni difficili da scorgere altrimenti, come quelle tra Ragazza che precipita, Suicidio al parco e I due autisti. In questi tre racconti, Buzzati parla di donne che si muovono verso la morte, ma, in Schiavo, anche di una donna che porta la morte. Queste caratteristiche evidenziate dall’analisi topologica differenziano in modo significativo Il Colombre da Sessanta racconti, dove la donna invece resta distante dalla morte, o, quando è circondata da elementi mortiferi, resiste alla pressione, come se costituisse un guscio attorno alla vita. Possiamo quindi utilizzare questo strumento per analizzare due storie, entrambe de Il Colombre, con in comune il tema della protezione materna e del dolore legato ad essa: L’uovo, dove una madre rivendica la felicità della figlia, e Il palloncino, dove invece un’altra madre non ha modo di difendere quella propria bambina. Nel primo, il dolore causato alla madre per le ingiustizie subite dalla figlia rende la donna una magica e onnipotente emanatrice di morte, mentre nel secondo la figlia si trova sola e indifesa di fronte alle prepotenze del mondo e il suo urlo di dolore raggiunge l’Aldilà. Il confronto tra i due testi rivela come, in accordo con la tesi di Beltrami, la topologia sia utilizzata quale strumento espressivo sulla protezione nel rapporto tra madre-figlia, intrecciato con la morte. Per ripercorrere brevemente le trame dei due racconti, ne L’uovo[57], Gilda, una donna di bassa estrazione sociale, vuole far partecipare la propria figlia Antonella a un evento pasquale che coinvolge partecipanti di ceto ben più alto. L’evento, destinato esclusivamente ai bambini, prevede una caccia a uova pasquali nascoste in un grande giardino. Al termine della caccia, un uovo ricevuto in dono viene sottratto ingiustamente ad Antonella dalla patronessa dell’evento, facendo nascere un diverbio tra la madre e gli altri adulti. Le autorità intervengono nel litigio, ma Gilda resiste grazie all’acquisizione improvvisa di poteri magici straordinari per difendere la propria figlia. La donna è infatti in grado di uccidere chi le si oppone e, in un crescendo tipicamente buzzatiano, riesce ad affrontare vittoriosamente persino gli interi eserciti e i mezzi militari che le vengono schierati contro, distruggendoli istantaneamente. Gilda diventa così una sorgente di morte, un epicentro di devastazione. Dopo essersi barricate in casa, la furia di Gilda si placa quando ad Antonella viene consegnato un uovo come quello ingiustamente sottrattole. Il racconto Il palloncino[58] ha come cornice due santi in Paradiso che osservano il mondo e, scommettendo sulla felicità delle persone, seguono le vicende della fragile bambina Noretta. La piccola vuole un palloncino e nonostante le difficoltà economiche, la madre cede alla richiesta. Noretta accanto alla mamma si incammina verso casa, resa felice da «un palloncino di guttaperca pneumatica»[59]. Arrivati a destinazione la madre entra nell’abitazione, mentre Noretta resta all’esterno con il palloncino in mano. Giungono da lontano tre ragazzi che per mero divertimento scoppiano con una sigaretta il prezioso palloncino, innescando in Noretta un urlo così disperato e sofferto da sentirsi fino in Paradiso, l’Aldilà, dove risiedono i morti virtuosi.

Le due storie presentano alcuni elementi in comune già in superficie: una madre di bassa estrazione sociale, una figlia che fortemente desidera qualcosa, un’ingiustizia che sottrae l’oggetto e una forte reazione. In entrambi i casi, la risposta al dolore connessa al mondo dei morti: a causa dell’umiliazione e dell’ira Gilda uccide molte persone, Noretta invece trasmette la propria disperazione all’Aldilà. Inoltre, come già nella raccolta Sessanta racconti la casa costituiva una fortezza domestica grazie alla presenza di una donna, anche in questo caso l’abitazione è il luogo protetto dalla madre. La casa diventa il centro della guerra di Gilda contro il mondo, nella quale è anche la figlia, ed è invece il luogo verso il quale si dirige la madre di Noretta allontanandosi dalla figlia situata all’esterno. Si crea così una significativa correlazione: la madre riesce (L’uovo) o non riesce (Il palloncino) a proteggere la figlia a seconda della propria posizione. In entrambi i casi, l’intrusione del male, rappresentato rispettivamente dalla patronessa che sottrae l’uovo e dalla sigaretta che buca il palloncino, è lontano dalla madre e vicino alla bambina, priva di amici o affetti a supportarla. L’invasione dello spazio affettivo riservato all’amore fa sorgere un dolore così forte da raggiungere tutto, persino i morti, i santi, nell’Aldilà, e non risparmiare nessuno, nemmeno gli eserciti. Questa è la proiezione dell’amore materno nello spazio donna-morte di Dino Buzzati.

 

Conclusioni

L’analisi di ispirazione scientifica proposta in questo lavoro ha efficacemente messo in mostra come la topologia dell’interazione donna-morte, spesso partizionata in diversi ambienti, vari nella selezione di racconti presi dalle due raccolte e sia utilizzata per codificare informazioni. In Sessanta racconti la donna e la morte restano distanti (I sette piani, Il mantello, Eppure bussano alla porta) o, se sono in prossimità (I topi, Non aspettavano altro), allora la donna è l’ultimo baluardo della vita. Invece, ne Il Colombre, la donna si muove verso la morte (I due autisti, Ragazza che precipita, Suicidio al parco), la porta (Schiavo, L’uovo) o entra in comunicazione con l’Aldilà (Il palloncino). Quale storia può essere narrata attraverso due elementi che interagiscono in questa maniera? Come si è evoluto il loro rapporto? Nella prima parte di questa meta-narrazione scritta tra i due libri, donna e morte appaiono antitetici, ma non necessariamente antagonisti. L’assenza dell’una è condizione necessaria, ma non sufficiente, alla presenza dell’altra, che rende la donna un simbolo di non-morte, piuttosto che di vita. Con la debole eccezione di Eppure bussano alla porta, non c’è mai uno scontro tra le due entità, ad esempio in difesa dell’uomo o di creature indifese. A fronteggiare l’ineluttabile destino c’è infatti sempre un maschio, come se l’angoscia fosse una questione che non riguarda l’altra metà della popolazione. Nella seconda parte della storia, successiva al 1961, la donna diventa un’alleata della morte. Infatti non esita ad andarle incontro senza opporvisi e non è mai, ad esempio, predata o assalita. Quando i due sono pienamente colocalizzati, allora la donna è una nuova sorgente moltiplicatrice di morte per i propri interessi (schiavizzare l’uomo o difendere la figlia). È come se nelle pagine mai scritte che intercorrono tra la quarta di copertina di Sessanta racconti e la prima de Il Colombre, la morte avesse sedotto la donna e l’avesse convinta a sedersi accanto a sé, convertendola a “diavolessa”.

Come menzionato nell’introduzione, nelle prime produzioni buzzatiane le figure femminili sono rare, prive di profondità, e relegate a ruoli secondari. Nonostante le posizioni misogine dell’autore bellunese non varino, a partire dagli anni Sessanta si assiste a un drastico allargamento della concezione della donna da parte di Buzzati. Seppure da un lato lo scrittore renda i personaggi femminili di Un amore carichi di odio verso i personaggi maschili, è altrettanto evidente che egli rappresenti le donne de Il Colombre come sofferenti o morenti, assegnando loro finalmente il ruolo di protagonista veramente umano nelle proprie narrazioni. Contrariamente alla apatica resa delle donne sofferenti in Sessanta racconti (Non aspettavano altro e I topi), le donne e le bambine de Il Colombre soffrono profondamente e non mancano di comunicarlo con fragore (Suicidio al parco, L’uovo, Il palloncino). Il dolore che sorge in una donna per proteggere (L’uovo) o in una bambina a causa del non essere protetta[60] (Il palloncino) è ciò che entra in contatto con il regno dei morti.

Lo spazio è quindi un mezzo espressivo utilizzato da Dino Buzzati per scrivere del dolore e delle emozioni, sensibile ai cambiamenti interiori dell’autore. L’avvicinamento della donna alla morte evidenzia che dopo gli anni Sessanta c’è stata una rivalutazione della figura femminile da parte dello scrittore bellunese e si riesce a tracciarne l’evoluzione in lenti passi graduali. Il limite maggiore di questo lavoro resta quello di non riuscire a dimostrare inequivocabilmente un nesso di causalità tra questo cambiamento e il lutto materno, ma solo mostrare una forte correlazione che può fornire da supporto a lavori più approfonditi, ad esempio simili a quelli già condotti nell’ambito della sessualità[61]. Questo è, in un certo senso, intrinseco nel metodo utilizzato, in quanto anche nello studio delle cellule la colocalizzazione di due proteine è insufficiente, da sola, a costruire modelli biologici, ma tipicamente necessita di ulteriori esperimenti per accertarsi che gli effetti osservati non siano dovuti a cause terze.

 

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