Oltre Laide, Eura e Santa Rita: figure femminili nei racconti di Dino Buzzati

The essay focuses on some female characters in Dino Buzzati’s short stories, highlighting how these characters and more generally the woman’s presence introduce features that extend the concept of the sensual woman, on the one hand, and the saving woman, on the other. Female characters mobilise themes such as the search for truth, the understanding and acceptance of reality, time, love and the desire for abundance. This is the case, for example, for the mothers in L’uovo and Il mantello or the young girl in Ragazza che precipita. The feeling of compassion pervades Buzzati’s writing and, in these female characters, is charged with a particular pathos that testifies to how the woman’s presence is fully integrated into the thematic fabric of the work and does not represent a secondary aspect.

Il contributo indaga alcune figure femminili nella narrativa breve di Dino Buzzati, evidenziando come i personaggi e la presenza della donna descrivano dei caratteri che ampliano e approfondiscono l'endiadi della donna sensuale e della donna salvifica. Nei racconti emergono delle figure femminili attraverso cui si esplicano i temi della ricerca di verità, della comprensione e dell’accettazione della realtà, del tempo, dell’amore e del desiderio di pienezza: è il caso, ad esempio, delle madri dei racconti L’uovo e Il mantello o della giovane in Ragazza che precipita. Il sentimento di pietà che pervade e informa la scrittura buzzatiana, si carica, in queste figure femminili, di un pathos particolare, che testimonia come la presenza della donna si inserisca compiutamente nel tessuto tematico dell’opera e non ne costituisca un aspetto secondario.

   

 

«Un corpo e un carattere…» Dino Buzzati e il personaggio femminile

Il graduale approfondimento della figura femminile nell’opera di Buzzati da parte della critica recente è un fatto significativo in quanto un attento vaglio delle occorrenze, della natura e delle funzioni dei personaggi femminili ha mostrato in che modo e con quale costanza questa presenza – anche nelle forme della sua ombra, un’ombra che non può certo risolversi nella formula della semplice “assenza” – attraversi la sua opera dalle origini agli anni Settanta e ne costituisca un elemento più rilevante di quanto le prime interpretazioni critico non abbiano ritenuto.

Se «il mondo del primo Buzzati è un mondo quasi completamente maschile, in cui si vive in comunità – la casa dei guardiaboschi di Bàrnabo delle montagne, la Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari – rigidamente organizzate, o in solitudine»[1], questo non toglie che già in queste opere l’ombra della figura femminile si costituisce come un elemento funzionale, necessario allo sviluppo dei personaggi e delle trame dei racconti di Buzzati. Le osservazioni di Daniele, in tal senso, sull’assenza della figura materna nelle prime prove dello scrittore assumono particolare rilevanza proprio perché assegnano all’ombra femminile una funzione non secondaria nell’economia del racconto, sottolineando come «il processo di crescita dell’uomo avviene di solito su due piani, quello della rude e spartana assunzione di responsabilità di stampo soldatesco (disciplina, difesa, fermezza e perseveranza) e quello della progressiva ma inesorabile educazione al distacco dell’affetto materno, in quanto seconda e inevitabile fase della crescita[2].

Le considerazioni che Buzzati, poi, nella lunga intervista a Panafieu, riserva alla donna, al rapporto con la femminilità nella sua adolescenza, i suoi giudizi e il suo “concetto di donna”[3], rappresentano altresì una testimonianza importante di una certa idea di virtù femminile e, per converso, di società, di cui si può trovare riscontro nell’opera. Le parole con cui egli tratteggia la consorte, «una donna forte, […] una che ci sa fare nella vita, non […] una che si perderebbe…»[4], alludono a una forza morale, un vigore interiore che lo scrittore riconosce alla donna, ancor più in «questa schifosa società [in cui] se una donna non è sposata è in una condizione d’inferiorità, sia morale che materiale»[5], e rimandano a una idea di femminilità – appunto «un corpo, un carattere…»[6] – che non si esaurisce nella dimensione sensuale, finanche lolitesca[7], o in quella della figura salvifica, dei personaggi di Un amore, Poema a fumetti e I miracoli di Val Morel, e che si rivela ampia, sfrangiata e complessa[8].

È a partire da queste considerazioni che si cercherà di approfondire alcuni personaggi femminili nella narrativa breve di Buzzati in quanto latori di uno spessore caratteriale che concorre ad ampliare e approfondire l’endiadi, ormai codificata dalla critica, della donna sensuale e della figura di donna salvifica, estendendo la caratterizzazione femminile oltre i due poli, opposti e complementari, dell’erotismo e della sacralità[9]. Senza prendere in considerazione le figure nei romanzi e i personaggi femminili di Eura, di Laide e quello, postremo e miracolistico, di Santa Rita, si indagheranno alcuni personaggi femminili nella narrativa breve dello scrittore al fine di comprendere in che modo questo repertorio di figure esplichi e approfondisca le tematiche buzzatiane, i suoi motivi.

Nei racconti, accanto a un buon numero di presenze femminili che si potrebbero considerare secondarie, sia dal punto di vista della caratterizzazione che da quello della funzionalità narrativa, dalla “servetta” che si accorge della goccia che sfida le leggi della fisica perturbando la realtà[10], alla madre e alla figlia di Eppure battono alla porta, sospese tra moraviana trepidazione e atteggiamento di disponibilità[11], vi è un gruppo di personaggi i cui tratti sembrano implicare e dispiegare appieno i nuclei della poetica buzzatiana, la riflessione dell’autore sul tempo, sull’umanità e le sue qualità. In particolare, attraverso alcuni personaggi femminili della narrativa breve sembra svolgersi un approfondimento di alcuni temi quali quello della caduta del tempo e il sentimento di questa caduta; il tema della comprensione della verità e della sua accettazione – il cui portato e la cui premessa è quel sentimento di pietà che pervade e informa tutta la produzione e intorno al quale si costruiscono le forti figure dei personaggi materni buzzatiani; il tema dell’amore come desiderio di pienezza, anch’esso correlato al problema del tempo; il tema della rappresentazione della borghesia.

Questi temi si intersecano, nei racconti, dando vita a figure sfaccettate e a delicate intelaiature narrative, dominate da momenti di malinconia e struggimento, ma anche di vertiginosa consapevolezza della natura implacabile del tempo e della fugacità della vita. A essi, poi, se ne aggiunge un ultimo, quello del coraggio della femminilità, della forza spirituale della donna, che innerva alcuni racconti contrassegnati da figure femminili forti, capaci di opporsi al tempo e alla società.

Mettendo da parte il tema – pure importante nell’economia scenografica e nella narrativa buzzatiana – della rappresentazione della borghesia, perché legato a racconti in cui la figura femminile si fa paradigma di situazioni drammatiche o un po’ patetiche, dove il fulcro non è la figura femminile in sé ma le sue azioni nel contesto borghese, come in Sciopero dei telefoni[12], dove il chiacchiericcio invade il racconto, oppure con le opache figure di Mariù Gabrielli e Donna Clara nel ritratto borghese di Paura alla scala, o ancora ne L’incantesimo della natura[13], qui si indagheranno gli altri temi a partire proprio dal modo in cui nel personaggio femminile si dispiega la poetica buzzatiana nelle forme del tema del tempo e della sua caduta, per proseguire nell’indagine di come la femminilità si confronta con il tema del destino, dell’accettazione di sé, infine con l’approfondimento di come il desiderio di giustizia e la speranza nel bello si esplichino attraverso personaggi femminili.

 

«Ho fretta d’arrivare…». La caduta del tempo, il sentimento del tempo e il personaggio femminile

Il tema del tempo non è soltanto il cardine intorno cui ruotano molti racconti, ma costituisce per molti versi l’asse tematico portante del discorso buzzatiano[14], che si invera con particolare vividezza nel personaggio di Marta in Ragazza che precipita, in modo meno marcato con la figura di Luisa ne La fine del mondo e, infine, con struggimento nella prima figura materna del racconto Direttissimo[15]. Sembra che nei personaggi femminili – e attraverso di essi, nel rapporto con essi – si faccia più acuto il tema dell’ineffabilità della vita, e che il personaggio femminile riesca a restituire con forza il sentimento del tempo che precipita, che divora e macina tutto, e lo scacco dell’uomo che tenta e pretende di afferrarlo. Se i personaggi maschili (Giovanni Drogo, Bàrnabo, i personaggi dei racconti) vivono il tempo nelle forme della sospensione, come attesa, le donne sembrano soffrirne l’impossibilità di avvinghiarvisi, di possederlo interamente, di poter aderire totalmente alla vita, al presente.

«Ho fretta d’arrivare»[16], dichiara la protagonista di Ragazza che precipita, il cui impulso di giungere al compimento della sua traiettoria, nell’illusione di poterla, una volta percorsa, possedere interamente, senza invece trovarsela alle spalle, le impedisce finanche di rispondere a chi le chiede quale sia la meta che giustifichi tanta fretta («“Di arrivare dove?”, le chiedevano. “Ah, non fatemi parlare’»[17]). L’impulso di precipitare emerge come un movente interiore sorgivo, pre-razionale e irresistibile, un istinto originario che, nella misura in cui allude a una specificità dell’atteggiamento femminile, rivela un aspetto dell’umanità tutta. La fuga di Marta verso la fine risponde a un impulso ctonio che, se da un lato riflette un certo modo di accostarsi alla vita, tipico della giovinezza, contrassegnata dalla bramosia di pervenire[18] («Come si precipita allegramente quando si hanno appena diciannove anni»[19]) e dalla mancata comprensione delle distanze, e del tempo stesso («Certo la distanza che la separava dal fondo, cioè dal livello delle strade, era immensa»[20]), dall’altro assume la fisionomia di un tratto universale della femminilità, allorquando ella si accorge di non essere la sola a precipitare:

Con dispetto si accorse che una trentina di metri più in là un’altra ragazza stava precipitando […]. Sarebbe giunta alla festa prima di lei, poteva darsi che fosse un piano calcolato per soppiantarla. Poi si rese conto che a precipitare non erano loro due sole. Lungo i fianchi del grattacielo varie altre donne giovani stavano piombando in basso, i volti tesi nell’eccitazione del volo, le mani festosamente agitate come per dire “eccoci, siamo qui, è la nostra ora, fateci festa, il mondo non è forse nostro?”. Era una gara, dunque[21].

L’anelito di cogliere «l’occasione, la fatalità, il romanzo, la vera inaugurazione della vita»[22] fa coincidere il desiderio di un destino con il suo compimento, rivelando però, poco prima della fine della caduta, la sua vanità e il suo paradosso, la contraddizione spaventevole insita nel suo inseguimento, nel momento in cui ella sente «un tremito crescerle dentro»[23], insieme alla «paura di aver fatto uno sbaglio senza rimedio»[24]. In questa caduta naturale – naturale perché, sembra dirci Buzzati attraverso i commenti dei vecchi che alla finestra assistono all’ennesima donna che precipita, arrivando vecchia e cadente prima di toccare terra, questo destino appare come connaturato alla femminilità stessa – la sola esperienza che Marta sembra compiere è quella della graduale perdita di sicurezza; proporzionalmente alla discesa, iniziata quando era «così sicura di sé quando aveva spiccato il volo»[25], verso il suo termine questa certezza ha lasciato il posto alla paura, quindi alla consapevolezza drammatica che «alla festa non sarebbe più giunta in tempo»[26], proprio perché la foga di vivere le ha impedito di fermarsi e di raggiungere un compimento, una realizzazione interiore.

L’urgenza di arrivare, il desiderio di gustare un appagamento finale che solo sembra dare ragione all’esistenza, viene qui raccontato con quella stessa dinamica di amplificazione spazio-temporale che si ritrova ne I sette messaggeri o in Sette piani, con una progressione a climax in cui la bramosia della vita è sostituita gradualmente dalla trepidazione, quindi dal tremito, dal timore che il senso della vita non fosse nella meta, e che proprio a causa di questa foga ella «non sarebbe più giunta in tempo».

In modo simile, sebbene in una situazione rovesciata, il personaggio di Luisa in La fine del mondo si accorge solo all’ultimo della necessità di un perdono e prende atto di aver dissipato il tempo a disposizione solo nell’ardore finale della confessione e davanti all’improvvisa scoperta del Giudizio imminente: «Lo sapevo – balbettava tra i singhiozzi – che doveva finire così, mai in chiesa, mai dire le preghiere, me ne fregavo, e adesso, me la sentivo che doveva andare a finire così»[27].

Nel racconto, è per mezzo della lingua, moltiplicando nella fretta le parole da rivolgere al prete, che i personaggi cercano di frenare, di rallentare la caduta del mondo intero, sperando di poter ottenere in extremis un perdono per una vita trascorsa nella dissipazione del tempo che è, in fondo, la conseguenza dell’incoscienza, della mancata consapevolezza di sé:

Luisa e Pietro guadagnarono il loro turno, riuscirono a farsi ascoltare. “Non vado mai a messa, dico bugie” gridava a precipizio la giovanetta per paura di non fare in tempo, in una frenesia di umiliazione “e poi tutti i peccati che vuole, li metta pure tutti…e non è per paura, mi creda, ma soltanto per desiderio di essere vicina a Dio, le giuro che…” ed era convinta di essere sincera[28].

Ad avvicinare il personaggio di Marta e quello di Luisa è l’agnizione di aver mancato il momento, di aver atteso vanamente qualcosa che accadesse nel proprio cuore, nell’interiorità più che nell’esistenza materiale. Questo sentimento di un mancato raggiungimento di un destino, la cognizione di un mancato compimento, per riprendere le considerazioni di Toscani in merito a Un amore, rimanda al tema dell’attesa come sola condizione in cui si presenta la possibilità di vivere, di conoscere un fatto, un evento, «un’attesa, non tanto dell’evento di cronaca (di un realizzarsi del tempo), quanto di un evento del cuore (di una realizzazione nel tempo). Un’attesa, come sempre, delusa»[29].

 

«Per me non devi perdere neanche un’ora…». Comprensione, accettazione del proprio destino, desiderio di pienezza

A fungere da trait-d’union tra i temi della caduta del tempo, del sentimento d’amore e della comprensione pietosa per l’altro – vero atto d’amore superiore – è il racconto Direttissimo. Qui, il tempo si costituisce come tempo perduto e le pagine finali del racconto per un momento riescono ad aprire una breccia nel cuore del protagonista, rivelandogli la vanità della corsa cui tutto è stato sacrificato. Il centro del racconto è occupato dalle figure dell’amata e della madre; la prima, silenziosa, di cui il protagonista intravede soltanto la schiena, mentre si allontana, persuasa che il treno non si fermerà e che egli non tornerà più, e quindi rassegnata; la seconda, invece, che mostra tutta la propria forza interiore di donna e madre accettando la realtà della propria condizione – consapevole che proprio nel lasciare andare i figli vi è il compimento del proprio ruolo di madre – e lasciando libero il figlio di riprendere la corsa, pur dopo una così breve visita. In entrambi i casi, come usuale nei racconti di Buzzati, non traspaiono rancori, né le donne si sentono defraudate: l’una si rassegna a una verità, l’altra la accetta finanche con gioia, per non far dolere il figlio.

In un tempo che viene scandito dagli orari ferroviari, dai ritardi dei treni, dai minuti che mancano prima che riparta la corsa, si svolge la vicenda del protagonista che, come il personaggio di Marta quando precipita, non riesce a fermarsi per cogliere l’evento, preferendo riprendere il viaggio. Così, quando egli avvista, in fondo al viale, la fidanzata Rosanna, «che se ne andava un poco curva»[30], prova a chiamarla, ma infine preferisce risalire sul vagone:

“Rosanna, Rosanna”, chiamai a tutta voce. Ma il mio amore oramai era distante. Non si voltò neanche una volta, e io vorrei sapere: umanamente parlando, potevo io correrle dietro, potevo abbandonare il treno e tutto quanto? Rosanna scomparve in fondo al viale, con una rinuncia in più io risalii sul direttissimo e via […] Che importava l’amore, dopo tutto?[31]

Se Rosanna, più ombra femminile che personaggio, rinvia alla possibilità dell’evento, all’amore che non si può realizzare se non nella forma dell’attesa delusa, è nel personaggio della madre – non il primo di una galleria di figure materne di particolare spessore e interesse nella narrativa buzzatiana[32] – che il tema della pietosa comprensione e accettazione delle cose emerge in modo struggente. La descrizione della madre, «nella sala d’aspetto, rincantucciata su una panca, tutta avvolta in uno scialle»[33], sin dal principio ambisce a restituire l’immagine pietosa della maternità, su cui gli anni e il desiderio del ritorno del figlio si sono incisi in profondità.

Il tempo che agita il protagonista e lo spinge a precipitare, a consumarsi in esso, consuma a sua volta la madre. Dice infatti il figlio, osservandola: «Misericordia, come era diventata piccola. Saltai dal treno e corsi ad abbracciarla. Stringendola, mi accorsi che non pesava quasi più: un mucchietto fragile di ossa»[34]. La malinconica scena dell’incontro, in cui il figlio le rivela di non aver progettato di fermarsi, cogliendo la madre di sorpresa e costringendola a sua volta a invitare ella per prima lui a riprendere il viaggio, è una commovente sintesi dell’amore materno:

“Dimmi, è un pezzo che mi aspetti”? “No, no, figlio mio”, e rideva felice, “non sono nemmeno quattro anni”. Così dicendo […] fissava il pavimento intorno quasi cercasse qualcosa. “Mamma, cosa cerchi?” “Niente…ma le tue valigie? Le hai lasciate sulla banchina?”. “Sono sul treno” dissi, “sul treno?” e un’ombra di desolazione le calò come un velo sulla fronte. “Non le hai ancora scaricate?” “Ma io …” non sapevo proprio come dirglielo. “Vorresti dire che riparti subito? Che non ti fermi nemmeno un giorno?” Tacque, sgomenta, e mi guardava. Sospirai: “E va bene! Lascerò che il treno se ne vada. Adesso corro a prender le valigie. Ho deciso. Rimango qui con te. Dopo tutto, mi hai aspettato quattro anni”. Di nuovo, a queste mie parole la faccia della mamma si cambiò. Tornarono l’allegrezza e il sorriso, il quale però non emanava più luce come prima.”

“No, no, non andare a prendere i bagagli, mi sono espressa male” supplicò. “Io scherzavo, sai. Io ti capisco. Non puoi fermarti in questo povero paese. Per me non val la pena. Per me non devi perdere neanche un’ora. È molto meglio che tu riparta subito. È il tuo dovere…desideravo solo una cosa: rivederti. Ti ho rivisto, e adesso son contenta.” […] “Macché valigie, un’occasione come questa non tornerà mai più. Tu sei giovane, hai da fare la tua strada, presto, sali in vettura, va’, va’” e sorridendo con fatica immensa mi spingeva debolmente verso il treno: “Per carità, fa’ presto, stanno chiudendo gli sportelli”[35].

Pur sapendo che avrebbe potuto trattenersi di più con la madre («Non so come, con tutto il mio egoismo mi ritrovai nello scompartimento e mi sporgevo dal finestrino aperto gesticolando per gli ultimi saluti»[36]), egli riprende il viaggio, poiché il suo orizzonte emotivo è dominato dal desiderio di precipitare verso il proprio tempo, di raggiungerlo, nella misura in cui l’orizzonte della madre è invece quello del dono del tempo, e dunque, anche della accettazione di ritrovare suo figlio per non più di qualche minuto. Il racconto si chiude con la sagoma materna in lontananza («Lei ben presto divenne ancora più piccola di quello che effettivamente era, una figurina afflitta e immobile sul deserto marciapiedi, sotto la neve che cadeva. Poi divenne un punto nero senza volto, una minuscola formica nella vastità dell’universo. E subito svanì nel nulla. Addio»[37]), e con il pensiero, che torna a tormentare il tipico personaggio buzzatiano in fuga precipitosa verso la meta, rivolto all’oscura percezione dell’impossibilità di frenare la caduta, e al senso di questo precipitare: «Siamo così di nuovo in viaggio, ma per dove? […] Quanto è lontana l’ultima stazione? […] Valeva la pena fuggire con tanta furia dai luoghi e dalle persone amate? […] Certo, tonare indietro non si può»[38].

La madre è il personaggio che riassume in sé la capacità di donarsi, e un esempio di quel sentimento di pietà che si carica, in queste figure femminili, di un pathos particolare, che testimonia come la presenza della donna si inserisca armoniosamente nel tessuto tematico della sua opera.

Uguale comprensione e pietosa accettazione si osserva ne Il mantello, dove nell’incontro tra Giovanni e la madre si esprime quella sensibilità materna e quella umanità in cui il dolore si screzia nella dolcezza e nella comprensione. Nel racconto la fisionomia emotiva della madre si ricava sia da alcune scelte lessicali del narratore, sia dalle sue stesse parole: ella si rivolge al figlio chiamandolo «creatura», lo guarda come «un prodigio», quasi «intimidita», visto com’era «diventato alto, bello fiero»[39]; è attraverso gli occhi della madre che il lettore segue il racconto, è nella sua tensione interrogativa, fitta di premure («Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo?»; «Devi uscire subito? E non mangi qualcosa?»[40]) che si intuisce la presenza perturbante della morte – l’elemento del fantastico che irrompe nel racconto. In una rapida variazione focale, la madre di Giovanni, delusa, anzi malinconicamente «desolata» dal diniego di lui a restare, si presta a diventare una universale figura di maternità, quando nel suo volto si scorge «subito ricominciare, dopo tanta gioia, l’eterna pena delle madri»[41], e nel momento in cui, di fronte alla nera presenza che aspetta fuori di casa, nasce in lei «incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta»[42]. Nel volto della madre, già desolata, si spenge quella «amabile luce di prima»[43], trafitta da quello sguardo «da cavar l’anima»[44] del figlio.

La dimensione universale della maternità, e il coraggio con cui la madre affronta il dolore e accetta il destino del figlio, e dunque il proprio, viene ribadito dopo che il fratello solleva per sbaglio il lembo del mantello, rivelando alla madre la ferita mortale di Giovanni. Solo allora ella capisce, e «un vuoto immenso, che mai e poi mai i secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore»[45]. In un frangente, ella comprende:

La storia del mantello, la tristezza del figlio, e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa, prima di condurselo via per sempre, affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori dal cancello, lui, il signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato[46].

Il personaggio femminile è contraddistinto qui da una capacità di comprensione profonda, cui si accompagna l’accettazione del proprio compito, che è fino in fondo l’assunzione del ruolo materno come tale.

Oltre all’amore delle figure materne, in alcuni racconti emerge anche il tema dell’amore come desiderio di pienezza, come desiderio di vivere la vita arrivando all’amore, come già accennato in Direttissimo e in Ragazza che precipita, come ad esempio in Inviti superflui, dove la donna è stavolta interlocutrice, destinataria silenziosa di una missiva carica di malinconia.

Al centro del racconto si delinea quella incomunicabilità e quella impossibilità di vivere, nella parola, la pienezza del senso, che accompagna i romanzi di Buzzati. Mondi diversi e forse lontani, la donna e l’uomo sembrano non poter collimare, destinati a tendere l’uno all’altro – in una sehnsucht continua – senza mai raggiungere il momento dell’unione. Nel racconto, l’uomo che parla intona una «melanconica canzone dell’amor perduto [che] ruota intorno ad una serie di desideri rimasti inespressi»[47], dove «il non detto è elemento portante dell’intero monologo»[48]. Nel breve racconto si snoda «un monologo sulla – e con la – donna amata, tutto incentrato sul ricordo delle cose fatte insieme e sul desiderio di farne altre»[49], che anticipa alcuni temi dell’amore irrealizzabile di Un amore, sottolineando l’impossibilità di vivere nuovamente un amore autentico, evidenziando il vuoto lasciato da lei nel cuore del protagonista, in una atmosfera in cui «permane solo la consapevolezza di una abissale distanza che separa i due amanti, destinati dal fato a seguire due strade opposte»[50].

Simile desiderio di pienezza investe anche il breve brano Contro l’amore[51], rapido controcanto a Inviti superflui, inserito in Le precauzioni inutili, in cui l’illusione di Irene, personaggio principale, di essere riuscita a recidere la pianta dell’amore, dopo una delusione, viene svelata quando esso prorompe ancora, nel suo cuore, al solo sentire le note «della sua canzone».

In questo racconto Irene vive la dolorosa condizione dell’innamoramento non più possibile che la spinge a voler «sradicare tutti i rami per cui quello sfortunato amore si è attaccato alle sue viscere»[52]. La descrizione della giovane è volta a rimarcarne la forza, la determinazione («È sempre stata una ragazza forte, Irene, e questa volta non sarà da meno. […] Non sono passati neanche quattro mesi, ed eccola completamente liberata»[53]), e dei suoi sforzi rimane traccia in una figura «un poco più magra, un poco più pallida, col languore soave della convalescenza, dentro cui palpitano vaghe illusioni nuove»[54]. Tuttavia, l’amore è una forza irresistibile, contro cui nessuna determinazione, per quanto ferrea, può imporsi, e per quanto Irene sia persuasa di aver vinto il suo sentimento, questi ritorna con ancora maggior forza, sulle note della sua canzone:

Tutto questo lei è riuscita a fare, con impegno disperato, non lasciando sguarnito un angolo, una fessura, da cui il ricordo potesse farsi strada. L’ha fatto, ed è guarita. […] Lei si sente sana, giovane […], felice addirittura? Quasi. Ma da una vicina casa viene una breve onda di suono. […] È bastato. Sei sette note […] la sua canzone. Su, coraggiosa Irene, non perderti per così poco. […] Ma un vuoto orrendo le si è già formato nel petto, ha già scavato una voragine[55].

L’amore, come si vedrà per la poesia nel racconto Era proibito, «aveva finto di dormire, lasciando che Irene s’illudesse [ed] ora una inezia è stata sufficiente a scatenarlo»[56]. Accostata alle altre figure femminili che conoscono l’amore o come correlativo oggettivo del vivere pienamente, o come forma materna di pietà e comprensione, con il personaggio di Irene Buzzati sembra indicare definitivamente nell’amore la forza primigenia che struttura il mondo e muove gli uomini, l’oggetto ineffabile del desiderio che determina la stessa caduta del tempo. L’anelito amoroso, una volta perduta la sua possibilità, giace come un guscio vuoto nel cuore del personaggio di Irene, la cui solitudine e disperazione assumono anche qui un carattere universale:

Fuori passano le macchine, la gente vive, nessuno sa di una donna che, abbandonata sul pavimento a ridosso della porta di casa come una bambina castigata, sciupandosi il bel vestito nuovo, perdutamente piange. Lui è lontano, non tornerà mai più, e tutto è stato inutile[57].

 

Desiderio di giustizia, speranza nel bello: una madre e una fanciulla

Tra i personaggi femminili più interessanti di questa panoramica nella narrativa breve di Buzzati vi sono forse quelli in cui una forza, un vigore sconosciuto ai personaggi maschili, che trae la sua ragion d’essere da un lato dal dolore e dalla consapevolezza di essere nel giusto e di avere diritto alla giustizia, dall’altro dal desiderio di non rinunciare alla speranza, al bello, alla possibilità dell’arte nella vita, emerge in delle figure che aprono delle brecce nel muro compatto delle convinzioni moderne, nella realtà opaca e atrofizzata della quotidianità e della meschina società contemporanea.

Già nel racconto Un caso stupefacente, tratto dalla singolare raccolta In quel preciso momento[58], il tema della grazia e della provvidenza si esplicava nel dono provvidenziale, ricevuto da Adele, vedova con due figli, di una improvvisa svolta nella vita: un lavoro ben retribuito, che avrebbe comportato la salvezza della famiglia e la fine delle loro angustie.

I due racconti più interessanti sono, però, L’uovo ed Era proibito. Ne L’uovo, ci troviamo davanti a un personaggio femminile straordinario e a un racconto che per più versi sembra rimandare al Michael Kolhaas di Kleist: subìta un’ingiustizia, Gilda Soso difenderà la figlia a costo di mettere a ferro e fuoco il mondo. La forza di una madre «offesa, umiliata e disperata»[59], si traduce in una potenza cataclismatica e sovrannaturale («Mentre la patronessa se ne andava con l’uovo – sottratto ingiustamente alla figlia –, la Gilda esplose le umiliazioni, i patimenti, le febbri»)[60] che rompe le leggi della natura e trascina in un vortice di dolore e rabbia e in una richiesta disperata di giustizia il mondo intero:

Si mise a urlare, coprì la dama di parolacce orribili […]. La Gilda era ormai fuori di sé, la vergogna, il dispiacere le davano un’energia immensa e irresistibile. […] Arrivarono due agenti. Lei si divincolava. […] Saranno stati dieci, tra uomini e donne, contro di lei. […] “E allora crepa tu per prima, maledetta” fece la Gilda […]. “Oh, Dio”; gemette la donna biancovestita, e si afflosciò esanime a terra. “E adesso tu che mi tieni le mani, anche tu”. Ci fu in un ingorgo di corpi, poi dal furgone uno degli agenti rotolò senza vita giù, un secondo subito stramazzò, appena la Gilda gli ebbe detto una parolina. Prese per mano Antonella, “largo, largo, fate passare”. Fecero ala, non avevano il coraggio di toccarla. Un vicequestore prese il comando: “Le pompe, i gas lacrimogeni”. La Gilda si volse fieramente, “Provatevi, se avete il coraggio”. Era una mamma offesa e umiliata, era una forza scatenata della natura. Un cerchio di agenti armati la chiuse. Avanzò imperterrita. Lei non li aveva neppure toccati, sei agenti in un mazzo crollarono a terra. Raggiunse la sua casa. La forza pubblica si schierò tutt’intorno. Le schiere […] arretrarono […]. Un carro armato cominciò a sobbalzare, poi si rovesciò di schianto. Poi un secondo, un terzo, un quarto. Una forza misteriosa li sballottava qua e là come giocattoli di latta. […] Fu decretato lo stato d’assedio. […] Le bombe esplodevano tutte quattrocento metri prima. Nessuna delle granate riusciva a raggiungere la casa[61].

Alla fine, sarà il Segretario Onu a chiedere i termini della pace, che si riveleranno straordinariamente umani: che si ripari il torto originario e la figlia di Gilda possa scegliere un uovo, quello stesso che le era stato sottratto da una madre appartenente all’alta borghesia (“«Voglio un uovo per la mia bambina». […] L’Antonella ne scelse uno piccolo, di cartone colorato, uguale a quello che la patronessa le aveva portato via”[62]).

Se si cita la novella kleistiana di Michael Kolhaas è perché la passione tragica che li muove avvicina le parabole Michael e di Gilda, personaggi che sembrano condividere il bisogno di «un ordine superindividuale»[63] e una «profonda esigenza della giustizia»[64]. La forza con cui Gilda mette a soqquadro il mondo è una facoltà soprannaturale di cui ella viene dotata solo davanti alla palese ingiustizia, all’umiliazione subìta, ed è il risvolto concreto – trasfigurato in un racconto che, dall’ambientazione borghese, vira sul fantastico – del vigore morale e dell’integrità profonda che presiedono alla maternità.

Infine, in Era proibito, la rinascita della poesia, la possibilità che si rigeneri il bello nel mondo avviene attraverso una bambina, il personaggio di una fanciulla. Il tema è interessante perché qui la breccia, l’anello che non tiene – se ci rifacciamo al Montale che definì Buzzati naturaliter cristiano – è proprio nella figura di una bambina. Sul rapporto con l’infanzia e sulla profonda relazione tra l’opera buzzatiana e il suo stile, contrassegnato da uno sguardo infantile strutturante la realtà, e dunque implicitamente morale, rimandiamo ai saggi raccolti da Letterio Todaro[65]. Qui basti ricordare che la fanciulla protagonista si pone in un atteggiamento di attesa e di disponibilità, e che è questa la leva che rende possibile scoprire una realtà più autentica del reale, che sfugge le norme sociali e organizzative dominate dai modelli della produttività e dell’efficienza, e rivela il fantastico dietro l’ordinario, svelando il bello e facendolo rinascere laddove sembrano annidarsi solo il grigio e l’ordinario. Ancor più, sono la noia, l’attesa, la possibilità di dilatare il tempo e viverlo senza scadenze quei fattori esistenziali che danno alla bambina la possibilità di sentire e far ritornare la poesia nel mondo: il motore della rivoluzione, in sostanza, sembra dirci Buzzati, è nella forza di sottrarsi al desiderio di esperire, nella capacità di allungarsi nel tempo e di ascoltare, di contemplare, con occhi e orecchie bambine, una realtà che, per svelarsi, ha solo bisogno che qualcuno la scorga.

Il racconto introduce un mondo in cui «da quando è proibita la poesia, certamente la vita è assai più semplice»[66], dove la sola cosa che conta è la produttività. In un simile contesto, l’onorevole Montichiari, «un uomo sicuro di sé, coi piedi piantati sulla terra, di questo potete essere sicuri»[67], scopre la figlia guardare fuori dal finestrino della soffitta, «con le mani aggrappate al davanzale, immobile […] come rapita»[68]. Il comportamento della fanciulla fa sorgere nel padre “un vago odioso sospetto”[69], che la poesia non sia del tutto scomparsa. La figlia, «assorta, guarda fuori, gli occhi dilatati, come se assistesse a un miracolo»[70].

“Giorgina, cosa fai qui?” “Niente, ascoltavo”. “Ascoltavi?” cosa ascoltavi?” Giorgina non risponde e fugge, i suoi singhiozzi si perdono per la scala. […] Cosa stava contemplando Giorgina? Cosa stava mai ascoltando? […]

Nulla si vede […] nulla si ode […] Oppure? Oppure proprio lassù, sui tetti trasfigurati in certo modo dalla luna, sta in agguato ancora la poesia, questa depravazione antica? E benché innocenti, anche i bambini ne restano tentati, senza che alcuno glie ne abbia mai fatto cenno? Non bastano le leggi, dunque […]? E perfino dentro Montichiari questo sentimento sta covando?[71]

È la bambina, la figlia dell’onorevole, il primo personaggio a intuire la poesia, è nel suo muto ascolto della luna che la poesia riprende consistenza e ritorna nel paese, creando in poche ore le condizioni per la caduta del Ministero e per la rivoluzione. Come nel caso di Gilda, anche qui un personaggio femminile presenta delle qualità soprannaturali, demiurgiche, capaci di riportare la giustizia, come il bello, in un mondo altrimenti destinato all’ossificazione.

Alle figure di Laide, di Eura e di Santa Rita, e ai temi dell’eros e della carnalità, della tentazione e del riscatto, della salvezza, si può dunque concludere che si affiancano altre figure femminili la cui forza risiede proprio nella misura apparentemente minuta e umana in cui vengono tratteggiate, sospese nel tempo, malinconiche e in attesa, oppure cariche di amore, pronte a farsene portatrici, tenaci, dotate di una psicologia delicata e autentica. Tali figure partecipano pienamente del discorso buzzatiano, ne corroborano e rafforzano le linee poetiche – la pietà e l’accettazione del proprio destino, l’assunzione della responsabilità del proprio ruolo, la forza amorosa, la bramosia di vivere il tempo – rivelando dunque la presenza di un repertorio consistente e sfaccettato di personaggi femminili, presenti sin dalle prime prove dello scrittore, i cui tratti, che solo in un secondo momento si cristallizzeranno nelle figure – e nei rispettivi caratteri – delle protagoniste dei romanzi, assolvono alla funzione di dispiegare e approfondire alcuni tra i principali nuclei tematici della poetica buzzatiana.

 

Bibliografia

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