«Non fare la smorfiosa»: femminilità e femminile nelle Poesie di Dino Buzzati

The paper analyses some of the most significant female presences in Dino Buzzati’s Le Poesie (Neri Pozza 1982). After discussing the marginality of this artistic form and theme within Buzzati's work and criticism, the stylistic-compositional constants and discontinuities between verse and prose characterisation of the feminine are discussed in order to shed light on the particularities of these two experiences. Particular attention is paid to some exemplary places already mentioned by critics for the narrator, along a symbolic line from animal transfigurations to archetypal places such as the house, the city and hell.

L’intervento propone l’analisi di alcune significative presenze femminili rintracciabili all’interno de Le Poesie di Dino Buzzati (Neri Pozza 1982). Dopo aver discusso la marginalità di questa forma artistica e di questo tema all’interno dell’opera e della critica buzzatiana, l’intervento discute permanenze e discontinuità stilistico-compositive tra i versi e la prosa nella caratterizzazione del femminile, nel tentativo di illuminare i tratti distintivi di queste due esperienze. Particolare attenzione è conferita ad alcuni luoghi esemplari, già citate dalla critica per il narratore, lungo una linea simbolica che dalle trasfigurazioni animali giunge a luoghi archetipici come la casa, la città, e l’inferno.

   

«Trattando l’ombre»

Avvicinare la poesia di Dino Buzzati dalla prospettiva dei women’s studies significa fare i conti con un doppio nodo critico. Da un lato la «zona d’ombra» di una forma esiguamente adoperata da Buzzati e spesso trascurata dalla critica[1]; dall’altro, l’«ombra femminile» che si aggira come tema tra carnalità e riverbero nell’opera maggiore, sul crinale di una data-limite (il 1963 di Un amore) che la vulgata ha a più riprese sostenuto demarcarne nettamente il limite tra «assenza» e « »[2]. Questa, a uno sguardo anche superficiale, sembra la parola che meglio accomuna la sfera tematica a quella formale. Bastino, al riguardo, le parole di Nella Giannetto e Ferdinando Bandini:

non bisogna dimenticare che la presenza femminile è molto marginale nell’opera di Buzzati, soprattutto narrativa, fino agli anni Sessanta e che poi in quegli anni le due presenze importanti, a parte qualche racconto, sono costituite dai due romanzi Il grande ritratto e Un amore[3].

 

Anche se marginale ed episodica rispetto alla sua attività di narratore, l’esperienza poetica di Buzzati non è però priva di connotati propri, né va spiegata, nel suo complesso, come un sotto-canone dello scrittore di romanzi e racconti. Scrivere poesie non è stato per lui come dipingere, ma qualcosa di intimamente legato alla sua vocazione di scrittore[4].

Giuliano Gramigna, che nell’Introduzione al primo «Meridiano» insisteva sul valore non formale ma «espressivo» del rapporto di Buzzati con i versi, già nel 1982 parla esplicitamente di «ossessione della forma» come «organizzazione delle ossessioni»[5]. Ne sarebbe una riprova la rigidità categoriale di Buzzati stesso in merito:

les choses poétiques sont en général des choses qui peut-être sont des petites choses, mais qui immédiatement évoquent des grandes choses. Ceci me semble être la caractéristique de la poésie. […] il n’y a pas de raisonnement, il n’y a pas de culture, il n’y a pas d’intelligence qui puissent servir à construire la vraie poésie. […] Le vrai poète […] parvient à extraire, d’une image, d’une situation, d’un sentiment, cet élan qui arrive à quelque chose d’absolument imprévisible pour le lecteur. […] Il y a poésie quand on est en train de dire quelque chose et que, tout à coup, on fait jaillir comme un éclair une autre chose, complètement différente, profonde et douloureuse, qui est née de la première sans que l’on puisse savoir comment elle en est issue. […] Ceci, que l’on pourrait appeler inspiration, et qui en fait représente des idées […] je ne sais pas d’où ça vient […] Je me suis convaincu […] de l’immense importance magique des rimes. […] Un mot qui rime, un mot approprié, qui vient au bon moment, qui n’est pas artificiel […] augmente son efficacité sémantique de dix ou de vingt fois […]. Le rythme a une fonction identique à celle de la rime. C’est-à-dire qu’une phrase rythmée a une signification si elle est bien rythmée. Ici, on entre dans tous ces phénomènes que pour ma part j’appelle rudimentairement magiques, et qui appartenaient en effet à l’antique magie. Prenons les litanies : c’est une opération typique de la magie. Elles ont toutes le même rythme, et, dans beaucoup de cas, comportent la même rime, qui crée une atmosphère capable de provoquer des miracles, autre élément typique de la magie et typique de la poésie. […] Je veux dire que la répétition est un autre élément caractéristique, précisément parce que la clef de la magie poétique est la répétition[6].

Questa sorta di sacralità va ricompresa in termini storico-critici: ad esempio, Blakesley ha recentemente incluso Buzzati all’interno della categoria dei «narratori-poeti», alludendo alla funzione esercitata dal prestigio della poesia sulla lingua italiana[7]. Se nozioni come «rima» e «ritmo» puntano (così Gramigna) su definizioni formalistico-strutturalistiche di verso e di poesia – la ricorrenza «in primo luogo» di un «motivo fonico» – non andranno trascurate le allusioni all’«idea», alla «magia»[8]. Lo stesso Jakobson, d’altronde, precisava che «primarily» non equivale a «uniquely»; e chiamava in causa la definizione di Paul Valéry, secondo il quale la poesia sarebbe «hésitation prolongée entre le son et le sens»[9]. Ciò che a un primo sguardo può sembrare il luogo di maggior distanza tra le due nozioni è, a ben vedere, quello di tangenza: la contemplazione, per via tecnica o mistico-estetica, di un’autonomia del bello. È quanto Buzzati, ambiguamente, definisce lo «stacco imprevedibile» della poesia. Panafieu, di fronte a questa scelta, dice «élan» quanto poteva dire «écart», favorendo un’interpretazione vitalistico-idealistica[10]; Gramigna, discutendo le modalità grazie alle quali «l’immaginario mette capo a un nodo simbolico», sceglie invece quella antropologico-psicanalitica[11].

Ma il nodo, come si diceva, è doppio. Sul medesimo crinale élan-écart, infatti, si può situare anche una tematizzazione del femminile in Buzzati. Una recensione di Alberico Sala comparsa sul Corriere della Sera l’11 luglio 1982 e dedicata a Le Poesie – tutt’ora l’unica edizione complessiva, data alle stampe proprio in quell’anno a cura di Ferdinando Bandini – individua tra forma e tema un legame esplicito; e lo fa chiamando in causa proprio Un amore:

Inatteso […] ecco, presso Neri Pozza, l’intero «corpus» di poesie dello scrittore, con una scheda di Fernando Bandini. Torna l’emozione, il fervore delle conversazioni, così naturali, con Buzzati, sulla poesia che, dopo questa distesa verifica, si afferma come il nucleo più germinante dell’intera sua opera, come il più presago degli sviluppi e dei motivi che la caratterizzano. […] La forma, la composizione, il regolamento, sempre infranti per gioco o pudore, della poesia, gli consentivano la più fertile ricerca sperimentale, lo sbrigliamento di tutte le facoltà, da quelle foniche a quelle visive. La pagina di poesia gli permetteva (anzi, suggeriva ed esaltava) i processi d’accumulo ed estraniamento, le impertinenze e gli sprezzamenti, i collegamenti fulminei e gli strappi, le schegge e le spine, i lampi analogici, gli inventari e le disarticolazioni che lo affascinavano e che gli apparivano come gli unici riflessi della contraddittorietà della vita, che si potessero catturare ed elencare, storicizzare, insomma, nella lotta disperata tra il caduco e l’impassibile. […] Buzzati sembra cercarsi anche nello «specchio fonico», per sconfiggere la solitudine, le insidie delle supreme meditazioni, nel trapasso dall’immaginario al simbolico, dal particolare delle occasioni più giornalistiche, all’universale. […] Predilige il poemetto, ma alcune brevi liriche ([…] Non esistono più, con quel finale che contiene tutto Un amore: «e incidentalmente dove sarà adesso – quella subrettina indecente – che ti rivelò la perfidia del sesso?»), fulminano la sua devozione, e verità, di poesia[12].

Lo spartiacque del 1963, peraltro, è messo in crisi dalla produzione in versi. Prima di essere raccolte (con criteri spesso diseguali) nella collezione «I Meridiani» tra il 1975 e il 1998, le poesie di Buzzati erano infatti apparse in forma di plaquette per Neri Pozza tra il 1965 e il 1967[13]. Difficile pensare che non vadano retrodatate. Ex quo sequitur che il femminile e la poesia concorrono in Buzzati a esporre e problematizzare una comune «marginalità»; ma questa marginalità è centrale.

 

Terminologie

Questo snodo costituisce anche il fascino e la difficoltà di ogni tentativo di delimitare la funzione poetica in Buzzati. Un esempio spesso citato in merito è la forma enclitica del verbo riflessivo («il fumo | delle stregate minestre perdesi»), addotta a esempio di scarto in senso formalisticamente poetico[14]. Si tratta, ancora, di spiegare in termini formali quanto da una prospettiva storica si colloca su un altro piano. Questa «“microcarica straniante” rispetto alla normale procedura espressiva» altro non è che un’allusione alto-ironica a un intero armamentario di sedimentazioni letterarie della lingua, operative almeno da Pascoli («Stavasi sulla groppa ad una pecora | la cornacchia e beccavala a bell’agio»), e che già Gozzano deformava in questo senso («Scorgevo un atropo soletto | e prigioniero. Stavasi in riposo | alla parete»)[15]. L’«incanto» o il «fantasma» della forma viene portato a un parossismo sorridente, liberando con l’esplosione anche molti dei meccanismi che Francesco Orlando ha definito «ritorno del represso» o del «superato»:

Le primitive credenze relative alle opposizioni fra animato e inanimato, fra mortalità e al di là della morte ecc., non sono mai state dimenticate e tanto meno rimosse lungo l’evoluzione individuale da bambino ad adulto, come non lo sono state lungo l’evoluzione sociale della magia animistica alla civiltà scientifica: sono state piuttosto superate. […] non è dunque che il superamento razionale di credenze arcaiche, cioè precisamente il processo dell’illuminismo. E la definizione stessa del sinistro come «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare», presuppone la labilità permanente di tale superamento, la reversibilità che cova in seno al processo dell’illuminismo, in due parole il nostro punto di partenza: la razionalità in quanto precaria[16].

Insistendo sul rapporto retorico-ontologico che apparenta la poesia alla prosa di Buzzati, Bernardo Pacini ha messo in mostra certe qualità di «superato» che apparentano poesia e femminilità:

Particolarmente efficace è il fulminante racconto Documenti da distruggere, che appare solamente nella seconda edizione del libro, dal titolo più minimale Siamo spiacenti di. Il testo ci catapulta in medias res: il protagonista, con l’intenzione di fare pulizia nello studio, decide di sminuzzare un pacco di carta straccia. Di che cosa si tratta? «Lettere d’amore? Fotografie lubriche? Poesie giovanili? Carte di sette segrete?». Non è importante. Dopo aver realizzato che è improponibile bruciarle o buttarle nella spazzatura, il protagonista decide di rovesciarle nella latrina e di tirare l’acqua. Poco dopo appare la moglie sulla porta dello studio e, affannosamente, chiede: «Sei tu che hai gettato…sei tu vero? […] Sono venuti su gli operai, devono rompere il muro, il tubo è rimasto intoppato, dicono che…». Il meccanismo retorico del troncamento, come quello dell'ellissi, è spesso utilizzato da Buzzati nella prosa e nella poesia e produce un efficace effetto di climax ostruita: la tensione narrativa si innalza bruscamente, il lettore inizia a intuire che Buzzati sta attribuendo a quei pezzettini di carta straccia di crepuscolare memoria un’importanza sproporzionata fino ad allora insospettabile. Il protagonista del racconto, in preda a un’ansia feroce (descritta con l’incalzante ripetizione della domanda: «Cosa? Cosa? Cosa?»), in realtà già presagisce l’ineluttabilità dell’accaduto. Siamo spiacenti di: il titolo stesso del libro già ne svela il fil rouge, e infatti la moglie è messaggera di disgrazie (come spesso accade nella letteratura buzzatiana): gli operai hanno trovato nei tubi «della carne, dicono, dei visceri. Una ragazzina tagliata a pezzi…»[17].

L’immagine di una poesia gettata nelle viscere del mondo razionale che diviene, per condensazione, le membra straziate di una «ragazzina»: basterebbe questo per argomentare il nodo tra poesia e femminile. Eppure, così come né idee, né discorsi, né immagini della poesia sono sufficienti a definirla, così bisogna scindere una «femminilità» da un «femminile», onde evitare esposizioni alle criticità più problematiche del campo (i women’s studies) e dell’oggetto (l’opera poetica di Buzzati). Entrambi i termini, difatti, non denotano la «cosa», ma connotano una «cosa della cosa», ponendola sotto la lente di comportamenti e habitus sedimentati; entrambi, in relazione al nome a cui si riferiscono, si situano in un rapporto di derivazione – l’uno in termini relazionali, l’altro astratti; entrambi espongono, in sostanza, una parzialità (la contingenza storica che li determina) nell’atto in cui, dietro pretese di continuità o di naturalità, la celano.

Dalla prospettiva dei women’s studies, i testi letterari sono materiali da interrogare per estrarre rappresentazioni. Queste dovrebbero esporre, per metonimia, la condizione più o meno alienata o mutila di una parte della specie umana ad opera di un’altra; o, per contro, suggerirne discontinuità da sottoporre al vaglio delle storie, delle geografie, o, ancora, delle sensibilità. A questa istanza legittima e anzi doverosa (e traguardante, nei casi più felici, un catalogo destinato all’uso che ne faranno, in un futuro sempre più ipotetico, le comunità liberate), bisogna tuttavia opporne un’altra, che è di ordine ideologico nel suo senso più ristretto – relativo, cioè, al il dominio di «idee sempre più astratte» tendenti ad assumere la «forma dell’universalità»[18].

 

Le madri e le odalische («Il Capitano Pic»)

Kate Millett ricorda che, per Freud, i tratti distintivi del soggetto femminile sono la passività, il masochismo e il narcisismo[19]. Nel poemetto Il capitano Pic, o il trionfo del regolamento, che mette in scena un «tipico eroe buzzatiano» – il cui «ossequio al Regolamento militare è tanto irragionevole da divenire sublime» –[20], queste tre caratteristiche sembrano compenetrarsi in due soggetti. Da una parte, le «madri» dei soldati che il protagonista guida verso un fronte inesistente; dall’altra, le «odalische» con cui «si svagano principi e re»:

 

ecco stabili d’abitazione

di canicola tremolanti

e alle finestre e ai balconi

appostate madri e madri

come ùpupe. E gridavano:

– Che cosa fai capitano

Dei nostri poveri ragazzi?[21]

 

Quando nei padiglioni

delle odalische lassù

in compagnia comme-il-faut

si svagano principi e re?[22]

La pluralizzazione delle due figure risponde a un criterio di ordine psico-linguistico, ben esemplificato da Émile Benveniste: la «persona amplificata e diffusa» che il plurale individuerebbe si trova qui di fronte a due modelli differenti della «non-persona» – l’«io» e il «tu» essendo le uniche davvero contemplabili in senso stretto. Paradossalmente, è proprio in virtù di ciò che la terza sarebbe la sola e autentica persona plurale[23]. La donna-casa e la donna-inferno, dunque: personaggi tipici, che individuano rispettivamente il margine superiore e quello inferiore del femminile buzzatiano. La positività del primo e la negatività del secondo hanno una comune matrice, che affonda le proprie radici nella sofferenza causata o subita, nella debolezza a cui costringono o che incarnano. Queste sono, secondo Panafieu, le lunettes misogine di «Monsieur Buzzati»:

le personnage féminin, cible naturelle de l’égoïsme, de la cupidité, de l’agressivité et du sadisme, sert de faire-valoir à l’éternelle dialectique des contraires […] malgré l’humour qui accompagne parfois cette peinture dévalorisante […] la sympathie du narrateur va vers ces femmes, saisies à l’instant où elles défaillent, endurent la souffrance et font face à un destin tragique. La connotation de faiblesse et d’impuissance face à l’adversité est en définitive plus positive que negative […] et pourtant […] les deux tiers des fiches de lecture […] proposent une caractérisation nettement satirique, pour ne pas dire, dans certains cas, satanique, du personnage féminin. […] La résurgence du mythe d’une Eve coupable, transmettant sa faute à toute sa descendance, est sans doute l’une des clefs de cette représentation pessimiste et critique du personnage féminin […] Perçue de la sorte, la femme devient […] une entité menaçante, une sorte de délégué de la mythique Atropos, capable en un instant de trancher le fil délicat et fragile des destinées[24].

Studi recenti hanno approfondito questa «dialettica dei contrari» sino a capovolgerla. La figura femminile non sarebbe il ricettacolo bifronte di una specie umana angelica e infernale, bensì il luogo dove più evidentemente emergerebbe la sua condizione, contraddittoriamente sospesa tra natura e storia, liberazione e sottomissione, appartenenza ed espropriazione[25]. Le madri, espressione del côté naturale, sono di gran lunga le più numerose nella produzione di Buzzati. L’archetipo compare per la prima volta in Bàrnabo delle montagne, dove la madre di Dario identifica assieme al marito il cadavere del figlio; tuttavia, è nel Mantello che, per la prima volta, Buzzati mette in scena il tema della madre in attesa del figlio di ritorno dalla guerra[26]. Si può dire di queste quanto è stato già osservato in merito a Il mantello – la cui aria, insieme a quella del Deserto dei Tartari, sembra amplificata all’infinito ne Il capitano Pic. Ciò, ovviamente, ha delle ragioni. Dal racconto del 1940, Buzzati avrebbe infatti tratto un atto unico, messo in scena per la prima volta nel 1960; due anni prima, sulle pagine della rivista «Il Caffè», aveva fatto la sua prima comparsa il poemetto[27]:

La visione della casa come rifugio, come «fortezza domestica» – tanto cara a Buzzati e tanto presente come tema della sua prosa – emerge con forza dalla prospettiva di chi […] rivede tale condizione con la nostalgia dell’escluso e con la consapevolezza che nulla si può contro quel moto centrifugo di allontanamento; ad essa fanno eco atti e parole [del]la triade femminile […] per tentare di trattenere Giovanni in quel luogo intimo […] la scelta dei termini comunica la passività della figura materna nel racconto. […] [nel]le parole che la madre formula al momento del ritorno di Giovanni perché possa meglio ammirarlo, notiamo [la] ripetizione del verbo «lasciare» nelle sue parole spezzate dal pianto («“Lasciati vedere” diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro, “lascia vedere quanto sei bello”»)[28].

La funzione protettiva della casa è spesso accompagnata da un riferimento animale. Il mantello (come già Bàrnabo) assume a sua metafora la cornacchia – che, nel suo rapporto con il «nido», riassume il «complesso delle inquietudini buzzatiane», facendo convergere nella figura animale la «distorsione» del desiderio di suturazione di una ferita, di risanamento dopo un lutto[29]. Il segreto del bosco vecchio, invece, tematizza la figura della gazza:

la gazza ha il compito – come la cornacchia del primo romanzo […] – di vegliare, di fare la guardia alla casa di Sebastiano Procolo e di avvertirlo col suo verso ogniqualvolta adocchiasse qualcuno salire. […] come la cornacchia, anche la gazza reca con sé un contorno di significati svantaggiosi: nera, ingannatrice, malfidata […] ricorrono […] certi quadri narrativi (volatile di genere femminile che custodisce la casa di un uomo/volatile ferito da un colpo di fucile/casa fatiscente)[30].

Se il cronotopo della «fortezza domestica» e la figura della madre sofferente per il figlio in guerra rievocano Il mantello, l’associazione con l’«ùpupa» ricorda piuttosto un procedimento analogo a quello evocato per la cornacchia di Bàrnabo (la quale «strideva disperatamente») o per la gazza di Il segreto del Bosco Vecchio, con le sue «grida altissime»[31]. Tuttavia (e tanto più perché evocato in un poemetto), l’animale-totem delle madri ne Il Capitano Pic espone un intero sistema sovrasegmentale di significati. In effetti, questo «ilare uccello calunniato | dai poeti» (giusta la rielaborazione montaliana di un passaggio critico di Benedetto Croce), aveva già da tempo assunto connotati lugubri o cimiteriali nella poesia italiana: il «mostro avverso al sole» di Giuseppe Parini colto da Ugo Foscolo a «svolazzar per croci», «l’upupa immonda in luttuoso metro» di Giosuè Carducci[32].

L’interferenza che si genera tra la sublimazione ornitologica del femminile buzzatiano e il tono di alta tradizione produce due diversi effetti. Il primo è di tipo parodico-umoristico: la «fortezza casalinga» si moltiplica infinitamente in «stabili d’abitazione»; il «caldo che faceva in casa», pur cessando di essere motivo narrativo, è mantenuto come alone funebre, assurgendo a ironica qualifica in anastrofe («di canicola tremolanti»); le madri sono, letteralmente, uccelli del malaugurio, trasfigurate entro un discorso che si regge sull’ambivalenza del linguaggio militare (come nemici «appostati»); il verso di riferimento oscilla tra ottonario e novenario, cioè tra la filastrocca e l’«inerzia» pascoliana[33].

Il secondo, dissimulato dal primo in senso distanziante e canzonatorio, è di tipo alto-tragico: la lettera del testo in ogni caso approfondisce, ampliandole, l’ambientazione casalinga e la disperazione materna de Il mantello. L’esasperazione in senso distanziante mostra la sua corda là dove l’enjambement tra i versi 8 e 9 nasconde (e insieme mostra sintatticamente) quello che, per quanto sghembo e irregolare, resta pur sempre un endecasillabo («appostate madri e madri come ùpupe»). La medesima connotazione torna, nei Sessanta racconti, a caratterizzare le «povere marchese Marizzoni» di Paura alla Scala:

E in quarta fila, quasi sul proscenio, le povere marchese Marizzoni, madre, zia e figlia nubile, sbircianti con amarezza al sontuoso palco 14 di seconda fila, loro feudo, dovuto quest’anno abbandonare per ristrettezze: adattatesi a un ottavo di abbonamento da consumare lassù, tra i piccioni, si tenevano rigide e compassate come upupe, cercando di passare inosservate[34].

Dall’altra parte stanno le odalische. Queste, a differenza delle madri, non parlano, né sono mostrate se non attraverso le parole del sovrano[35]:

 

Però che brave che buone

loro altezze maestà.

Pur tenendosi sulle ginocchia

le bimbe nude, si degnano

ogni tanto di guardare in giù.

[…]

– Su pupetta non far la smorfiosa

lasciati fare […]

– Ti supplico, più adagio, amore.

[…] Suvvia belle schiave

(chitarre e flauti zum zum)

ce la fate una danza del ventre?

[…] Caspita, di quelle maschiette

la seconda mi piace, un tipetto lubrico

direi…[36]

È significativo osservare come, anche in questo caso, sia all’opera un meccanismo di capovolgimento. L’estrema reificazione di queste donne risponde a un criterio alto-ironico nella misura in cui, entro le coordinate aspaziali e atemporali del poemetto, i «principi e re» richiamano, quasi per contatto o per «stacco», l’esotismo della concubina. La totale negazione di riconoscimento e di storia per queste donne infernali (o, piuttosto, relegate in un inferno) si sovrappone in questo senso alla sequenza in cui le madri manifestano per la liberazione dei loro ragazzi dalla leva militare. Solo allora la figura della prostituta svela il suo motivo strutturale: rendere più esplicito e più comico il capovolgimento degli appellativi che il sovrano impiega nei loro confronti:

 

Su, ciambellano, fa entrare

queste scocciatrici dell’inferno.

E voi, signorine, sciò sciò,

svelte dietro le tende.

Quindi fece un volto paterno

ma così paterno! – Vi prego

accomodatevi care signore

sono a vostra disposizione.

[…]

– Su su, coraggio, signore belle

[…]

– Per il Cristo – pensò il re

e di dentro si imbestialì

[…]

che ti venga un canchero. Sorrise

a quelle figlie di puttane

con mansuetudine:

– Brave donne – belò –

tornate pure ad accudire

a sprimacciare, ad allattare.

Vi assicuro vi prometto che

insomma parola di re.[37]

Che la donna-inferno e la donna-casa arrivino a coincidere o a invertirsi sembra, in un certo qual modo, contravvenire a quanto della concezione femminile buzzatiana emerge dalle analisi condotte fino ad ora. Ignacio Matte Blanco definì «simmetrico» il procedimento grazie al quale, nel sistema inconscio, la logica classica perde di validità. L’inconscio pensa per classi; ogni suo elemento assume identico valore, e sta per l’intera classe a cui appartiene; le relazioni tra classi sono sempre reversibili; questo, in sintesi, genera insiemi infiniti, in cui non si danno rapporti di contiguità ma solo di somiglianza e, appunto, di simmetria. Di conseguenza, «svanisce» ogni rapporto di tipo spazio-temporale – almeno nei suoi termini fisico-matematici. Questa, a ben vedere, sembra la qualità del fantastico entro cui si muove Il Capitano Pic[38].

 

Verso la città («Scusi, da che parte per Piazza del Duomo?», «Tre colpi alla porta»)

Il punto di contatto tra donna-casa e donna-inferno (se così si può chiamare) è, di fatto, un sottoinsieme del nesso simbolico donna-città. Tutta la sequenza Scusi, da che parte per Piazza del Duomo? si gioca su questa contrapposizione; Il Primo panorama di Milano è, di fatto, inquietantemente simile all’istantanea di un articolo di nera; dove all’immagine della donna brutalmente uccisa si sovrappone quella della città sotto le coltri dello smog:

 

Guardatela se ne avete il coraggio

dall’alto da vicino o lontano

ma no non potete vederla

la copre il sudario delle caligini

solo in certi pomeriggi di maggio

e di ottobre anche, il vento del nord[39].

Sembra che in ogni sequenza una donna appaia o scompaia – o, ancora, che appaia scomparendo. In L’incremento automobilistico, alcuni correlativi oggettuali della «moderna angoscia» cittadina (grande teatro della cronaca nera), quasi evocano la scomparsa di una donna in clausola:

 

Guarda! Le tapparelle le multe […]

la saracinesca che scroscia

le strade adibite ai suicidi

la passatoia lisa gli striminziti giardini

[…]

l’operaio stanco, la vecchietta cattiva

che risponde male, la gonfia balena

peripatetica all’angolo, le targhe che gemono

[…]

Intanto una donna è scomparsa

sulla montagnetta di San Siro[40].

La sequenza Non è vero che si gioca tutta sulla qualificazione di una «vita» la cui ribattente iterazione cela uno sgretolamento, un’erosione che si svela di natura amorosa:

 

Pure fra queste desolate mura

si è verificata la vita mia.

Brutta fumigosa presuntuosa cafona

meravigliosa, come negarlo?

Smog smog smog, però

vita, coi suoi fetidi detriti, però vita

[…] Era qui

che lei se ne andò era maggio era giugno

dannazione della vita mia[41]

La plaquette man mano si precisa come un tentativo di romanzo in versi che abbia la città industriale di Milano per protagonista[42]. Le voci che da questo centro parlano ne sono le anime molteplici, sospese tra l’angoscia della vita quotidiana, spesso esposta in calce viva come titolo di cronaca e l’ombra del perduto o, ancora con Orlando, del «superato»:

 

Ottanta auto con le gomme bruciate

in una sola notte

nella zona di via Silva piazzale Lotto.

Ma come fai a volerci bene

a così laida piattezza?

Tutto è cambiato da allora,

imbecille, la tua giovinezza

è lontana. Esiste ancora, rispondi

la scuola privata di via Manzoni

dove imparavi col metodo Perlasca

toni e semitoni?

Una piccola cassaforte

con centodiecimila in contanti

rubata nel garage Aurora.

Esiste ancora il parapetto di pietra

[…]

Esiste ancora la ruota del Theobroma

[…]

si danno ancora al teatro Fossati

spettacoli di varietà e di operette

e incidentalmente dove sarà adesso

quella subrettina indecente

che ti rivelò la perfidia del sesso?[43]

A metà tra la cronaca e l’epica della città – ad esempio in Tonfo in corso Garibaldi – la distruzione della via nel corso della ricostruzione postbellica rende gli aspetti più rugosi della vita cittadina (i «bassifondi minorili», le «gare in biciclo coi teppisti», la «squinzietta con gli occhi cinesi | e la bocca peccaminosa», il casino degli ufficiali di via San Pietro all’Orto) un ricordo velato di malinconia, oggetto di un ricordo ambiguo e ambiguamente restituito alla «memoria»:

E della saga di San Pietro all’Orto

chi senza vergogna si rammenta?

Con quelle tipe! di cui la memoria

non si è ancora spenta.[44]

Al bordello, si affianca nuovamente l’«altare dove si inginocchiava la Mamma» della sequenza successiva, Piccoli episodi, insieme a una ragazza che, cadendo, sembra quasi squarciare il tessuto temporale:

 

la ragazza che so

scivolò e cadde malamente

ottobre millenovecentoquarantaquattro

e balenò a conforto dei cittadini

la luce di una coscia innocente

proprio davanti al teatro

così inattesa in quei tempi di angoscia[45].

La donna pubblica e quella sacra nei rispettivi luoghi «chiusi» (la chiesa e il lupanare); la donna innocente che, «cadendo», è simbolicamente erotizzata in luogo pubblico. È qui, all’interno del binomio donna-città, al crocevia tra crimine, pedagogia e viricidio[46], che ha luogo una delle ultime sequenze della plaquette, la quale sovrappone la storia della «signora Josephine» e della sua «nipotina Rosabella», la morte bianca di un manovale di Matera e una filastrocca per bambini. Per questa unione di patetico e terribile, di atemporale e cronachistico, Buzzati stesso lo considerava «un pezzo eccellente» (Panafieu 1989). Particolarmente degna di attenzione è la mimesi del parlato della signorina Josephine, colta nell’atto di dire alla nipote (come il re a un’odalisca nel Capitano Pic) «da brava non far la smorfiosa»[47]. Nel misterioso incipit di Tre colpi alla porta, con poche variazioni, questa frase ha nuovamente luogo:

 

Qualcuno aveva fatto un’operazione

attinente all’asse, alla barriera fatta di assi

la quale chiude la casa? Aveva nella notte

mentre le luci i prego si accomodi i su

dammi un bacetto smorfiosa le luci i sorpassi

la farandola all’incrocio, ansiosi, smaniosi, stupidi, fessi?

O disperati. Semplicemente[48].

Insomma, Buzzati è sempre sul crinale tra la dolcezza e l’abuso. Ma è vera anche un’altra cosa: se la «femminilità» può essere oggetto di un’esposizione, il femminile è sempre alluso senza possibilità di nominazione. Lo «stacco imprevedibile» dei versi si regge sulla solenne ambiguità delle occasioni (i colpi alla porta, la città, il senso della spedizione militare), degli strumenti utilizzati per la resa espressiva di questa ambiguità; l’ostentazione della forma e insieme un certo sperimentalismo primonovecentesco ne scava dall’interno le significazioni, in un gioco senza fine di addizione e sottrazione; il carattere sostanzialmente emergenziale di queste «poesie vestite da poesie» va, in definitiva, annoverato quale tratto caratteristico che situa a pieno titolo l’esperienza poetica di Buzzati nell’alveo di una certa figurazione propria degli anni Sessanta:

Basta un nulla, […] una rima, un gioco di parole, un nome di fiore o di persona, per mettere in orbita nella [sua] poesia […] autentiche girandole verbali, che diventano quasi veri e propri oggetti, materiale di scherzo e di spettacolo, numeri da circo, anche quando dietro la maschera di tanta felicità il lettore scopre un più silenzioso e velato sorriso: quello della malinconia[49].

Queste parole, che Giovanni Giudici riferiva alla poesia di Aldo Palazzeschi, sembrano confarsi all’esito o fine ultimo della pratica versificatoria di Buzzati, che in questo senso non poteva davvero che prendere la forma soprattutto del poemetto: dove cioè un certo incanto della forma e della «struttura», esigente e quasi feroce fantasma, sovradetermina la materia stessa dei versi. Di qui, la sublimazione ironica ed erotica di questa voce, che trapela come spiffero proprio dai fatti propriamente stilistici – quelli che Buzzati definiva gli «scarti» e gli «stacchi» imprevedibili della poesia.

 

Dalle «altre poesie»: «Un grave incidente a Maria Ester»

Tra le Poesie inedite, sinora disponibili soltanto nel volume del 1982, ha un posto particolare Un grave incidente a Maria Ester. Il componimento redatto «con accompagnamento a fronte», presenta la voce di una labile prima persona, sempre sul punto di farsi onnisciente, la quale subisce, nella colonnina a fronte, stilata secondo il modello o layout grafico di un libro contabile, un altrettanto labile controcanto interiore. Le tre ripartizioni della poesia segnalano, peraltro, il progressivo distacco dai modi dell’io, il cui persistere (a ben vedere) motiva il finale, tutto alla terza persona, dove il fare narrativo e riepilogativo si contrappone al «balbo parlare» nel momento di massima concitazione erotica – la lacerazione della veste sulla pubblica via, sotto gli sguardi smaniosi degli uomini[50]:

 

 

Tutto questo serve a sottolineare ulteriormente il gioco parodico che ridiscute senza fine lo scarto tra presa diretta sugli eventi e la loro rendicontazione, la frammentazione che si produce nell’agire poetico tra io scrivente, io narrante e io narrato; nonché le ripercussioni del «grave incidente» su una lingua che si biforca nelle direzioni dell’estremo pudore e dello scoperto erotismo.

In Un grave incidente a Maria Ester, l’armamentario retorico e figurale di Buzzati è quanto mai vasto: è il caso, ad esempio, dell’antifrasi ironico-burocratica dell’incipit, dove alla pomposità del nome di battesimo della malcapitata fa seguito l’infamante o misteriosa sigla Nomen Nominandum o Nomen Nescio: da un minimo di anonimato del personaggio da contrapporre alla precisione anagrafica del suo referente, fino alle vette quasi plautine del «padre ignoto»). Oppure dalle marche, ancora, palazzeschiane: l’onomatopea («tramp tramp tramp») o le preposizioni in poliptoto elevate a puro verso («nel nello nelle negli in»). A cui fa riscontro, come si diceva poco fa, il balbettio del narratore, il quale tenta di ‘coprire con la lingua’ (con quanto c’è di equivoco e di esplicito nel gesto) quanto la «sdegnosa ragazzuola» ormai ha perduto, fino alla risignificazione simbolico-erotica del nonsense: «soprattutto nello stecco nel coso | nel cosissimo si incastrò».

 

Conclusioni (?)

Per concludere questa breve prospezione su femminile e femminilità nella poesia di Buzzati, è il caso di citare due liriche, intitolate I treni! I treni! e Chi siamo?, poste significativamente ai due capi della sezione poesie inedite – e che riproducono con varianti minime lo stesso componimento. «Non chiedete, signore e signori, il senso di queste immagini», scrive Buzzati al termine dei testi; «bisogna dire che Buzzati […] non si è probabilmente riletto», suggerisce Bandini[51]. Eppure, forse l’avvisaglia di un «senso» la si può trovare proprio nell’immagine incipitaria, quella cioè della «sarta» lavorante alla specchiera, che parlotta tra sé e sé:

 

«Qui – disse la sarta

sibilando fra i denti

che tenevano alcuni spilli –

io farei un’altra pince».

«Sì, sì» lei radiosa

divorandosi nella specchiera.

«E qui un’altra, qui ancora un’altra».

«Sì, sì, sì», come è interessante la vita.

(Ma è lo stesso, sempre eternamente lo stesso)[52].

Il brano citato rimane immutato in Chi siamo?: tuttavia, si trova preceduto da una nuova quartina che consegna una chiave di lettura ulteriore:

 

Si appoggiò con le spalle

alla porta appena chiusa di casa

Il capo le si sciolse

In un pianto a scatti.

«Qui – disse la sarta

sibilando fra i denti

che tenevano alcuni spilli –

io farei un’altra pince».

«Sì, sì» lei radiosa

divorandosi nella specchiera.

«E qui un’altra, qui ancora un’altra».

«Sì, sì, sì», come è interessante la vita.

(Ma è lo stesso, sempre eternamente lo stesso)[53].

Chi parla in questi testi? Chi piange, chi sibila, chi «radiosa» si divora? È possibile avanzare la proposta di un femminile puro colto nell’atto di divincolarsi da ogni sua declinazione contingente? Una molteplice persona femminile?

 

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