L’enigma della donna in Dino Buzzati: monstrum, rivelazione, alterità

Women increasingly occupy a central role in Buzzati's work, culminating in three chthonic figures: Laura (Il grande ritratto, 1960), Laide (Un amore, 1963), and Eura (Poema a fumetti, 1969). This progression reflects not only a liberation of the female universe for the author but also an Orphic descent marked by violence and intrusion. Buzzati portrays women as «creature(s) from another world, vaguely superior and indecipherable» (Un amore). His depiction of women is heavily influenced by mythological codes, which offer a symbolic interpretation of his biographical experiences. In Buzzati’s works, the mythical woman emerges as a "monstrum"—a miraculous figure who both frightens and captivates, reminiscent of mythological icons such as Pandora and Circe, and even saintly figures like Santa Rita in I miracoli di Val Morel (1971). This article explores the intricate relationship between mythological motifs and the portrayal of women in Buzzati's writing, with attention to the intersection of his artistic vision and personal biography.

La donna trova nell’opera di Buzzati via via maggiore spazio fino a esplodere con tre figure ctonie: Laura (Il grande ritratto, 1960), Laide (Un amore, 1963) ed Eura (Poema a fumetti, 1969). Questa progressione rappresenta per l’autore non solo una liberazione dell’universo femminile, ma anche il segno di una discesa orfica impostasi con violenza e invadenza, essendo la donna «creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile» (Un amore). Questo aspetto è trattato da Buzzati con una forte ricorrenza al codice mitico poiché permette una interpretazione sensata della vicenda biografica. La donna mitica è in Buzzati monstrum, miracolo che spaventa e attrae, in linea con le grandi donne del mito come Pandora, Circe ma anche come Santa Rita ne I miracoli di Val Morel (1971). Questo articolo indaga il peculiare rapporto tra il codice mitico e le donne nell’opera di Buzzati, anche alla luce del percorso artistico e biografico dell’autore. 

   

 

Sfatare i luoghi comuni

And a woman needs a man

Like a fish needs a bicycle[1]

«Le mie due esperienze migliori sono la madre e l’amante…»[2]. È una frase di Buzzati ormai al bilancio finale della sua vita; frase perentoria ed evasiva al tempo stesso, che si accorda ad un dualismo molto familiare che in Italia ad esempio si riassume nel motto «tranne mia madre e mia sorella» (sic!), alludendo al fatto che le donne, mogli comprese, siano tutte infedeli da un punto di vista coniugale[3]. Mi scuserei di un incipit così particolare, se non fosse che proprio il luogo comune in questa sede appare come l’incancrenirsi di una mitizzazione pervicace e pervasiva. Su questa scia, potremmo dire che il mondo femminile rappresentato da Buzzati non solo risenta di tale dualismo ma si sia complicato e affinato proprio cercando nel mito o nella mitizzazione alcune risposte evidentemente ineludibili all’uomo e all’artista. In questo modo l’argomento ha suscitato via via grande interesse e grande perplessità nella critica, che non è riuscita quasi mai ad evitare la prurigine dell’incrocio tra biografia e finzione, perché esse si intrecciano in Buzzati più che in altri autori[4]. Tra un prima e un dopo, di cui vedremo probabili collocazioni, la rappresentazione femminile in Buzzati trova un grande acuto (ma forse non il culmine) nel romanzo Un amore (1963)[5], seppur con significative anticipazioni nella cronaca e nei romanzi precedenti[6]. Eppure Buzzati confessa che l’afflato simbolico di Un amore (ma anche per il Deserto dei Tartari potremmo procedere a un simile discorso) si era creato in modo spontaneo, senza che lo cercasse[7]. Così la simbologia ascende a quei progenitori lontani come una coerente ricerca ad ampio raggio e in questo percorso anche i luoghi comuni e le banalizzazioni hanno avuto la loro significanza.

Per questo i soliti luoghi comuni, quelli che suonano appunto come «tranne mia madre e mia sorella» e di cui la letteratura occidentale è intrisa, discendono da molto lontano come già si vede nel medioevo con la laus feminae e il vituperium feminae, due aspetti che coesistono. Quasi sempre il personaggio femminile nella letteratura prodotta da autori uomini è proposto in queste due polarizzazioni: madre-santa opposta ad amante-puttana (tra l’altro modelli femminili più che familiari nell’orizzonte esistenziale di Buzzati)[8]. Ebbene, sante o puttane, le donne della letteratura, sonno solo questo come affermano Pieri-Violante[9]? Buzzati sembrerebbe accondiscendere, aggiungendo Dorigo ai vari Orlando innamorato e poi furioso, il Cavaliere di Ripafratta ne La locandiera, Emilio Brentani in Senilità, Giorgio Aurispa ne Il trionfo della morte, solo per citare alcuni dei celebri protagonisti perdenti davanti all’amore disperato con la femme fatale. Così misoginia e filoginia appaiono i due lati della stessa medaglia: due tentativi di disinnescare un potere oltre che un modello culturale. Questo sarebbe coerente con quella che Yves Panafieu in uno studio pionieristico sulla questione femminile in Dino Buzzati delineava come «mythification de l’amour»[10], assumendo tre miti femminili (Eva, Circe e Maria) come assi cartesiani per definirne le coordinate. Questo concetto è allora la prima logica conclusione di un modo basico di affrontare la questione, che poi Antonio Daniele rinnoverà in una visione più profonda e complessa, stabilendo meglio i giochi di forza tra immaginario, ambientazione e personaggi femminili. Tuttavia, la questione mitica del femminile buzzatiano era ormai stata messa in luce e in essa lo sviluppo archetipico trovava già una sua collocazione simbolica, che Panafieu aveva forse sintetizzato all’estremo ma che non appare comunque lontana dalla verità. Così è lecito affermare che anche Buzzati risente del luogo comune, intravedendone però il profondo e conturbante mistero lì celato, e questo mistero va complicandosi per gradi sempre maggiori fino a diventare, sì, un’ossessione. Infatti si potrebbe pensare il luogo comune come un racconto in estrema ellissi, che assume il valore di verità assoluta capace di fare ordine nel disordine e di fermare l’insondabile, imbrigliandone il caos. Tuttavia l’artista deve agire anche sul rimosso, su ciò che la narrazione non ha permesso di vedere: infatti «i banali luoghi comuni possono essere una questione di vita e di morte»[11] e, a ben pensarci, mai come a proposito della rappresentazione dell’uomo e della donna ci serviamo di essi. La sfida è andare oltre usandoli non per abbassare il tono del discorso, ma riconducendoli alla loro risonanza mitica. Lo stesso Buzzati diceva spesso all’amico Salvatore Fiume «Le donne bisognerebbe ucciderle tutte!», a causa del frequente scoramento per le sofferenze amorose[12]. In questo modo si potrà forse non risolvere in modo univoco, ma almeno giungere al cuore della questione: vedere come Buzzati ha incontrato l’Altro e quindi capirlo meglio anche noi attraverso la sua opera. Questo incontro sembra avvenire grazie al conflitto che ne deriva. Questo è il senso del discorso per Buzzati: capire la verità perché l’altrove ha numerosi messaggeri e la donna sembra essere di essi la più importante.

Dunque la narrazione mitico-simbolica così rilevante in Buzzati è fondamentale per superare – passi la metafora – questa sorta di stretto di Scilla e Cariddi, tra il biografismo estremo e la finzione avulsa dalla biografia, superando l’impasse del fatto nudo e crudo, del biografismo e degli snodi psico-sessuali così comodi in Buzzati, ma anche così scivolosi. Questo è possibile perché i miti “sono sempre”, sono il passe-partout simbolico che ci permette l’accesso alle stanze segrete dell’opera buzzatiana in un sincretismo, a volte plastico, a volte corrotto, del codice classico e del codice biblico[13]. Così il conflitto si è potuto liberare nelle sue conseguenze estreme almeno in chiave mitico-simbolica[14]. Raccontare, per Buzzati, è l’unica àncora di salvezza proprio quando la vicenda biografica del famoso amore con Silvana Costa, ispiratrice biografica di Un amore, diventa insopportabile: «L’unica, per salvarmi, è scrivere», come scrive in una pagina di diario datata il 17 marzo 1960[15].

 

Creatura meravigliosa e ambiguo malanno: l’eredità del mito in Buzzati, la donna come signum e monstrum

Necessariamente, se parliamo di miti, il discorso deve partire da molto lontano in modo che in questa lontananza si stagli il mito con i suoi archetipi, cioè l’immenso  bagaglio narrativo, figurale e simbolico che l’Occidente ha ereditato. Da sempre il femminile appare più un caos più che un cosmo, un mondo poliedrico e denso di contraddizioni in cui orientarsi non è mai stato facile poiché spesso si è a confronto con qualcosa che è familiare e che al tempo stesso appare oscuro; qualcosa che va limitato poiché la sua forza appare nota ma sconosciuta nelle sue reali potenzialità e nel suo potere sovversivo. Da dove vengono proprio quei proverbi, quei luoghi comuni, quelle battute di strada che esprimono il sentire comune molto più di tanti saggi filosofici? Perché esistono? Questi luoghi comuni, a loro modo simboli, o segni semantici, seppure incancreniti, ci appaiono come dischi rotti coatti a ripetersi. La donna sembra così spesso aliena, anche nei luoghi comuni e questa estraneità pervade molti tratti dell’opera buzzatiana e viene infatti posta quale premessa alla vertigine di Un amore. Proprio questo senso di estraneità ci lega subito agli antichi miti ove il maschio è spesso succube della potenza femminina, rivestita molte volte di un ruolo iniziatico. Per questo la donna buzzatiana è percepita come creatura straordinaria e non di questo mondo, come leggiamo prima nel Deserto dei Tartari: «Anche le donne, amabili e straniere creature, le prevedeva come una felicità sicura, a lui formalmente promessa dal normale ordine nella vita»[16]. E similmente in Un amore:

La donna, forse a motivo dell’educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici. La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile[17].

Questa idea di estraneità suggerisce il concetto di monstrum, dai verbi latini moneo, ammonire, monstro, dimostrare. Occorre intanto ricordarsi che monstrum era manifestazione e indicazione della volontà degli dèi, in seguito “oggetto” oppure “essere soprannaturale”, che desta parimenti terrore e meraviglia[18]. In greco la parola τέρας, (téras) di origine oscura è il segno divino mandato da Zeus e, da Omero in poi, qualsiasi segno divino interpretabile dai mortali per prevedere il futuro. Allora è coerente che una “donna mostro” – meravigliosa e terribile – suggerisca le modalità di informazione del mondo metafisico tramite gli stessi «messaggeri inesistenti» sempre utilizzati da Buzzati, proprio come «la figura dondolante e incerta intravista a Porto Said» che diventa a un tempo «latore di notizie e simbolo di quelle»[19]. Dapprima anche lei un’ombra dondolante, mano a mano la donna diventa chiave del mondo proibito e, per sineddoche, quel mondo proibito e agognato: monstrum e signum. In questo senso il suo ruolo appare conforme alle divinità antiche che avevano ruolo profetico e iniziatico (ad esempio come la Pizia, sacerdotessa di Apollo; o la Sibilla cumana che introduce Enea negli Inferi; come Circe che spiega a Ulisse come incontrare i morti e parlare con loro). Bisogna allora chiedersi quale sia l’ascendenza mitica e quale simbologia abbiamo ereditato, almeno con un rapido excursus.

Andando appena più in profondità, ci accorgiamo che la simbologia del femminile è tradizionalmente inquieta. Nel complesso pantheon dei Greci abbiamo dapprima la Grande Madre, «donna materna verso cui regrediscono i desideri dell’umanità», «l’entità religiosa e psicologica più universale»[20], attinente alle fasi lunari (ben più importanti di quelle solari) e ripartite in tre aspetti: vergine, ninfa e vegliarda, declinate poi in Atena, Afrodite ed Era, protagoniste del mito di Adone e del pomo della discordia, dal risvolto iniziatico connesso all’oltretomba dei Campi Elisi (e quindi al mondo proibito e alla vita eterna degli dei)[21]. In seguito, con Zeus padre degli dèi, in Omero e in Esiodo, le divinità femminili subiscono un abbassamento: perdono importanza, si fanno loro paredre (Era compagna di Zeus e non viceversa) e spesso alcune divinità diventano mostruose nel fisico o nel carattere. Gli antichi tratti della Grande Madre furono sì ereditati, ma in modo scomposto, frazionato: l’aspetto generativo, lasciava così il posto a quello distruttivo. Ecco dunque le Moire, corrispettivo della triade Atena-Afrodite-Era, ma attinenti alla morte (e quindi sempre alla luna); e poi ancora le Erinni e le Arpie, nasceva Echidna, «madre di tutti gli orrori mostruosi»[22] (quali Tifone, Cerbero, Idra, Orione, la Sfinge), in cui Jung vedeva la Grande Prostituta apocalittica (in effetti legata al drago)[23], fino alle Empuse, «demoni femminili smaniosi di sedurre gli uomini»[24], le Sirene, le Amazzoni, e a personaggi come Circe e Medea, belle e sfuggenti, maghe seduttrici, estremamente pericolose. In controluce questo passaggio potrebbe da sé racchiudere tutto il femminile buzzatiano: dalle prime potenti ombre femminili (spesso materne negli esempi più importanti, come vedremo) si giunge all’esplosione sincretistica del femminile de Il grande ritratto che ha un’inconfondibile veste distruttiva, altro lato della dimensione ctonia[25]. Infatti anche per i Greci rappresentare il mostro-donna voleva dire in fondo dominarlo, poiché la donna doveva essere sempre delimitata e circoscritta in un gineceo fisico e morale: così in Buzzati vedremo come esempi più calzanti Laura-Numero Uno come una donna degradata a mostro (pur mantenendo in sé il femminino); Laide diventare per Dorigo una maga seduttrice, una donna che lui non sposerebbe, ma che vuole controllare; e, credo sia lecito aggiungerlo, Buzzati dipinge ossessivamente figure femminili dando corpo a una sorta di gineceo mentale. Le rappresentazioni del femminile alternavano infatti due aspetti precisi: la bellezza e la mostruosità[26], aspetti che esplicitano il lato predatorio generato dal loro sesso, causa della perdita della razionalità, della potenza virile, cioè il «senno» dell’ariostesco Orlando. Questa perdita della potenza virile – sorta di castrazione simbolica – ha rimandi ancestrali e mitici, più che psicologici tout court: infatti Afrodite Urania, la maggiore delle Moire secondo il culto ateniese, uccideva il πάρεδρος, cioè compagno, in funzione ancillare, ossia il divino paredro, uomo succube che giaceva con lei, e lo uccideva strappandogli i genitali[27]. La potenza del femminile era infatti incarnata dalla πότνια (potnia, prefisso “pot-” ), traducibile in italiano con “signora/padrona”, in inglese con la parola mistress, termine che oggi si usa per indicare colei che governa le pratiche sessuali sadomasochistiche sugli uomini. Ma la pratica dell’umiliazione con la perdita del senno riguardò anche uno dei simboli di mascolinità più importanti del mondo antico, cioè Eracle fatto impazzire da Era, seccata dai suoi successi[28].

Come vedremo più avanti, nell’analisi di un caso particolare, ossia di Un amore, il senno, ricoducibile alla μῆτις (métis), se perso (o anche se non posseduto), differenzia Prometeo (colui che prevede e capisce prima) nel fratello Epimeteo (colui che capisce dopo) sfortunato coprotagonista del mito di Pandora, succube del fascino femminile. Buzzati sembra in linea con il mito: «Ché lo scopo ultimo è di portare l’uomo alla donna, e di portarlo a congiungersi carnalmente… c’è questa deviazione che la natura stessa probabilmente non poteva prevedere, ma lo spunto primo era quello lì…»[29]. Tale senso di ineluttabilità del desiderio che conduce alla rovina, sembra essere alla base del dramma buzzatiano in campo amoroso e della sua visione sadomasochistica dei rapporti uomo-donna, già peraltro allusa nel Deserto dei Tartari tramite il nome stesso Fortezza Bastiani (con la quasi esplicita menzione di San Sebastiano, archetipo del masochismo maschile) e la descrizione del deserto stupefacente che, come afferma Nerenberg, appare sempre come un triangolo che diventa un freudiano Unheimlich[30]. È questo l’innesco che apre alla rivelazione di un nuovo mondo, infero o apocalittico poco importa. Anche l’ispirazione di Un amore prende avvio dal senso di sconfitta davanti alla donna – una sconfitta a tutto campo ma prima di tutto intellettuale, giacché si basa sull’incomprensione di quel mondo da parte di Dorigo, se non alter ego, sicuramente fantasma biografico di Buzzati. Leggiamo nel diario una connessione puntuale.

Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale era sempre passato con disdegno e oscuro desiderio. Lei gli viene incontro, creatura dell’abisso, ma lui non riesce ad averla, a capirla, a passare di là. Con le sue parole lei stende un sipario invalicabile di menzogne, nel quale lui annaspa, lotta, senza mai riuscire a romperlo. Ecco la porta chiusa, il confine insuperabile, l’impassibile vittoria» (Pagina di diario, 17 marzo 1960)[31].

Come uno dei suoi più noti protagonisti, Giuseppe Gaspari, cioè il «borghese stregato»[32], Buzzati confessa di non riuscire a passare di là, in quell’universo nuovo: ciò che lui compie qui nella pagina di diario è appunto innescare la referenza mitico-simbolica, legando l’esperienza biografica all’ispirazione narrativa, vedendosi dunque da persona a personaggio, agendo insieme al suo doppio e all’ombra di lei nella pagina.

 

L’alterità femminile da ombra a «cosa di carne»: fantasie erotiche e intrecci tra biografia e finzione

Com’è noto, Buzzati visse storie d’amore frustranti e avvilenti, tra vani inseguimenti, tormenti infiniti, rodimenti interiori. Se la donna è quindi aguzzina, l’uomo viene ridisegnato tramite un’altra immagine mitica: legato e seviziato, punito per la sua hybris, in una visione quasi prometeica o come Tizio. Abbiamo difatti già anticipato un punto importante: il concetto di punizione o comunque l’uomo succube della donna, maliziosa e spietata. Sebbene gli indizi in questo senso siano molti, è sufficiente citare la confessione dello stesso Buzzati, il quale confessa che una prima eccitazione sessuale era avvenuta in lui leggendo una storia sul «Corriere dei piccoli». In questa storia il protagonista, un ragazzetto, veniva legato a un palo e seviziato da una strega con un coltellino. E su questo punto si fermò, dicendo di non voler proseguire inutilmente ad esporsi al pubblico ludibrio[33]. Ad ogni modo basta leggere ancora il diario, sempre in riferimento alla ragazza di Un amore: «io lo sento questo tremito sgorgarmi fuori dalle profondità dell’anima e del corpo dove si è annidata lei e ride vittoriosa assaporando la sua dominazione su di me, ben sapendo di farmi impazzire»[34]. La tendenza ad una visione sadica dell’amore si alterna ora latente ora palese in un chiaroscuro di forte ambiguità, ma Buzzati rivela che la tendenza al sadismo è in lui connaturata che in lui diventa però masochismo, giacché il masochismo è per eccellenza la fantasia erotica dell’attesa: l’attesa della punizione che però è anche il contatto seppur violento con la divinità punitrice. E l’attesa, si può tranquillamente dire, è il grande tema delle sue opere. Per questo, anche se il femminile ha sicuramente attraversato più fasi, anche se lo scenario montano muta in quello urbano, e anzi è l’inurbamento a garantire una maturazione del femminile in Buzzati, l’attesa resta il fattore comune proprio perché essa lega chi attende a colei che deve arrivare. Infatti: «la donna è un elemento di scompenso che dà angoscia, che fa paura, ma da cui non si può prescindere. Non è mai compagna in Buzzati, è sempre, secondo la grande tradizione romantica, la belle dame sans merci, la bella signora che non ha pietà, che tende alla sopraffazione»[35]. La donna è legata tra l’altro proprio all’abbandono della casa, e quindi della madre, motivo che aveva originato anche il Deserto dei Tartari[36].

Torna allora la domanda: dove si incontrano (se si incontrano) biografia e finzione, visto che questi aspetti trovano coincidenza anche nella vita di Buzzati? Per quanto ci si sforzi di vedere poco interesse nel biografismo, c’è la sensazione che esso torni sempre col suo moto orbitale, come un satellite intorno al proprio pianeta. D’altronde se ci si è posti spesso questo problema (il caso di Un amore è eclatante, perché a lungo si è taciuto il nome della persona reale dietro Laide), vuol dire che questo problema è concreto[37]. Non solo: Silvana Costa, la ragazza dietro Laide, disse a Buzzati che il libro non le era piaciuto e che – in iperbole – se il libro l’avesse rovinata, l’avrebbe ammazzato[38]. Dunque alcuni snodi biografici diventano simbolici, indicativi, non tanto per vedere bramosi dove biografia e fantasia si incontrino, ma per capire dove quest’ultima vada a rielaborare la prima perché entrare in una finzione «vuol dire consentire a esporsi al conflitto cognitivo tra credenza e non credenza, nel senso di una più o meno totale adesione al mondo finzionale»[39]; cioè prendendo le cose per vere, anche se non lo sono o non del tutto. Come abbiamo suggerito, si tratta di passare tra Scilla e Cariddi senza estremizzare nessuno dei due lati. Non sarà allora cadere nello psicologismo spicciolo ricordare quanto il rapporto con le donne sia stato per Buzzati sempre assai complicato[40]. Infatti, l’incontro vero e proprio fu tardivo e ciò che era stato prima di Silvana Costa, come Bibi (Beatrice Giacometti), apparteneva agli anni della scoperta e della gioventù, quando tutto sembrava possibile: come aveva detto nel Deserto dei Tartari, le donne erano sempre ombre lontane, irraggiungibili, ma sapeva che sarebbero arrivate. Intanto, però, fu a lui necessario un terreno franco in cui evitare il vero incontro (il bordello). Quando l’amore e il desiderio si rivelarono, esplosero violenti, sorprendendo Buzzati adolescente nell’anima, ma pienamente adulto nel corpo, anzi alle soglie della vecchiaia, dunque all’ultima occasione: sarebbe opportuno dire «come Drogo malato quando stanno arrivando i Tartari»[41]. Tuttavia il percorso si era preparato volta per volta ed è il mito a mostrarcelo, anch’esso terreno franco dell’incontro con il femminile. È quindi arduo definire anni e opere di un concreto cambiamento: è plausibile che Il grande ritratto e Un amore abbiano un rilievo davvero peculiare e per loro tramite si possa parlare di un prima e un dopo: di Un amore per quanto riguarda la biografia, a dire dello stesso Buzzati, ma si può anche parlare di un prima e un dopo Il grande ritratto per quanto riguarda l’ideazione completa del personaggio femminile che si era preparata nel tempo attraverso il cambio di scenario, da norreno a urbano soprattutto grazie anche alla cronaca nera in cui Buzzati trova (o forse ritrova) la donna genitrice e distruttrice (su tutti si pensi al caso Rina Fort e a quello di Anna Maria Carlèsimo)[42]. Seguiranno altri miti in chiave moderna in un sincretismo ancora più invasivo: Eura-Euridice in Poema a Fumetti «in un rovesciamento di prospettive che denuncia l’irrecuperabilità del mito arcaico da parte dell’uomo moderno»[43], racconto che però nell’atto stesso di denunciare l’assenza del mito (o almeno la sua degradazione) ripropone il mito dell’assenza; e nei I miracoli di Val Morel, ultima grande opera buzzatiana, con protagonista Santa Rita da Cascia in cui ritorna la contrapposizione tra la santa e la prostituta, non come sensuale e provocatorio accostamento (non solo almeno) ma come metodo di ricerca della verità e della verità del femminile in particolare che va proprio a toccare quei modelli consacrati dalla nostra letteratura e quei luoghi comuni di cui forse non sappiamo ancora fare a meno[44].

 

Due fasi distinte eppure fluide

Notiamo che ci sono due fasi della rappresentazione: una fase che potremmo dire lirica, quasi stilnovistica, se pensiamo alla madre di Drogo e a Maria ne Il deserto dei Tartari (o la madre del soldato ne Il mantello, citando due esempi conclamati), una delle ombre femminili più intense; e una fase più complessa e destrutturata in cui emerge la donna del mito nella sua forza ctonia che parte da Il grande ritratto. Soprattutto il primo personaggio si palesa nella sua distanza incolmabile e viene presentata come appartenente a un altro mondo, indefinito e lontano, caratteristica tipica dei primi personaggi femminili buzzatiani.

Drogo capiva di voler bene ancora a Maria e di amare il suo mondo: ma tutte le cose che nutrivano la sua vita di un tempo si erano fatte lontane; un mondo di altri dove il suo posto era stato facilmente occupato. E lo considerava oramai dal di fuori, pur con rimpianto; rientrarvi lo avrebbe messo a disagio, facce nuove, diverse abitudini, nuovi scherzi, nuovi modi di dire, a cui egli non era allenato[45].

Come tra Maria e Drogo, o tra la madre e Drogo, anche ne Il mantello tra madre e figlio si crea un velo che separa i due mondi[46]. La scelta del nome è evidentemente simbolica e non serve sottolinearla ulteriormente. Ciò che attira di più l’attenzione è invece questa separazione che costituisce forse il velo che pone il femminile nell’altrove: l’attrazione per l’alterità femminile, infatti, per Drogo è sinonimo di rinuncia alla Fortezza e ai suoi sogni perché «Giovanni Drogo non vuole essere un inurbato» e sublima ogni amore, ma soprattutto quell’amore per Maria, in amore per la Fortezza che assume la rilevanza di un amore sofferto per una donna, proprio perché inaccessibile nel suo mistero[47]. Così dall’ombra di un rapporto possibile avviene lo stacco verso un immaginario più inquietante e conturbante, in modo quasi improvviso, richiamando l’altro lato della dimensione ctonia della donna buzzatiana, in cui la donna mantiene un ruolo preminente, di superiorità, vista però dal lato della distruzione. La donna è sempre la creatura del mistero, più una semidea e non una persona. Certamente il caso più conclamato di ripresa mitologica sarebbe Poema a fumetti, con Eura-Euridice e Orfi-Orfeo, ma si può vedere che segni del mito erano già presenti. Buzzati aveva già ritratto moderne Erinni, Vampire, Gorgoni, divoratrici di vario tipo; ma anche donne costrette e legate, dominate, violentate in corpi metamorfici degni di Ovidio. Ovunque spuntano artigli, ali di pipistrello, denti aguzzi di leone come nel quadro La vampira (1965)[48]. La donna nell’immaginario di Buzzati diventa all’improvviso metamorfica, grottesca, mostruosa o accostata al mostro in pose lascive preparando l’espressività pop di Poema a fumetti, dove il nudo femminile è esibito come signum e monstrum e non certamente come lasciva pornografia. L’oscenità rivelata è intrisa di vitalismo[49]. Proprio questo aspetto è coerente con le premesse stesse dell’articolo, cioè che ci sia stata una fase in cui la creatura donna era intatta e lontana e un’altra in cui ogni suo aspetto è stato esplorato, ma anche ingigantito e assolutizzato, sfruttando il ricorso al medium della pittura.

Il percorso mitologico ha infine due riprese forti e dirette: Eura e Santa Rita, che segnano il punto di arrivo della ricerca buzzatiana in senso cronologico e forse anche esistenziale. Da Poema a fumetti ai Miracoli di Val Morel con i suoi inquietanti e icastici ex voto, ci troviamo di nuovo davanti al vasto campionario femminile che esaspera miti e tradizioni contaminati senza soluzione di continuità. Le donne dipinte nelle ultime due opere offrono una deformazione cruenta, un carcere che costringe il corpo ricordando di nuovo le ibridazioni del mondo greco, le spaventose e incestuose unioni – l’aspetto predatorio e seducente permea tutto il femminile Poema a fumetti – e le punizioni metamorfiche di Aracne o di Scilla che quindi ripropongono anche il monstrum tra meraviglia e terrore[50]. L’intermedialità scrittura-pittura (ma anche commistione dei codici mitici cristiano e classico) fa risaltare quella che Coglitore definisce «una complessa strategia di veridizione»[51]. Tale violenza espressiva giustappone codici, riferimenti e stili, e nasce forse da una resistenza a oltranza al femminile, ma anche da un’attrazione inestinguibile e ineluttabile che ci riporta al punto di partenza fino al conflitto del mito. La risultanza non è solo la conferma del femminile inquieto, aspettato come forza liberatrice e temuto come forza distruttrice, delimitato e costretto, e per questo ancora più rabbioso e vendicativo, ma anche un trionfo che appare celebrato all’insegna dell’ascendenza mitica alla “potnia”, la donna potente e divina, nell’inedita chiave della celebrazione pop di una santa che esprime e contrasta al tempo stesso l’apocalisse del femminile o la femmina apocalittica, che rivela e distrugge, assimilata infatti a mostri tipici dell’apocalisse. In effetti santa Rita è raffigurata proprio opposta o a donne perfide o a mostri dall’ascendenza biblica come il serpente, il drago e il leviatano[52].

Allora è forse legittimo credere che l’intermedialità delle ultime due opere risponda all’esigenza di dare corpo all’inquieto mondo femminile, nella speranza di dominarlo, di delimitarlo come nel quadro Donna in scatola del 1970. Questo rapporto si esprime nella città, che è anche l’ambiente staccato dall’ambito matriarcale: infatti nella città Buzzati colloca in modo simbolico un sud immaginario[53], dove avviene «la fusione più pregnante tra donna, città e inferno»[54], «una creatura dell’abisso», che di quell’abisso possiede le chiavi. È quello che Antonio Daniele descrive come “inurbamento” nel mondo femminile che tocca il suo apice non solo in Poema a fumetti, dove Milano appare tentacolare e infera (corrispettivo dell’Ade), ma anche in un racconto decisivo come Viaggio agli inferni del secolo (1966), dove si adombra la prospettiva di un femminismo imperante, già peraltro suggerita dallo stesso Buzzati in più articoli sul Corriere[55]. L’aldilà è ormai tutto conquistato dalle donne che lo dominano come moderne diavolesse[56].

A questo punto è necessario scendere nel dettaglio di due esempi particolarmente importanti già peraltro utilizzati: Laura, che congiunge l’immaginario della montagna con quello della città (al suo interno ha un labirinto-cittadella), e Laide, la ballerina di Un amore, pizia del mondo cittadino. Infatti, è proprio la città a suggerire la caduta nell’abisso – in un Sud simbolico[57] – dove l’uomo viene attratto verso la propagazione della specie, verso il basso della terra e non verso l’alto, verso un «abisso cocente»[58], un inferno di piacere.

 

Il corpo mostruoso di Laura ne Il grande ritratto (1960)

Passando a esaminare Il grande ritratto possiamo subito stabilire un contatto o forse proprio un’ascendenza con il mito della prima donna in carne e ossa della mitologia greca: Pandora (Πανδώρα). Essa si rivela dotata di ogni dono degli dèi, tutt’uno con uno scrigno che lei porta in dote, sottolineando anche qui che il messaggero è il messaggio, come Buzzati assume molte volte nei suoi racconti. Pandora è al contempo per gli uomini portatrice di desiderio e quindi speranza di felicità, ma anche di tutte le infelicità e le sofferenze che nascono dalla disperazione. Aprendo il vaso, rivela al mondo ogni sofferenza, pur lasciando salva la speranza[59]. Inoltre lei fa conoscere agli uomini il dolore dell’amore perché una dea, Atena, le dona il potere di sedurre e ammaliare. Perciò da questa generazione, come leggiamo nell’Ippolito di Euripide, si staglia l’ambiguo malanno κίβδηλον κακὸν (kìbdelon kakòn) e l’ambiguità diventa il segno di un irriducibile conflitto tra i sessi: da una parte, per l’uomo, il tentativo assoluto di controllo in nome della legge e di prescrizioni durissime (Creonte contro Antigone, ad esempio); dall’altra, per la donna, la capacità di distruggere la legge poiché si offre come divenire e superamento della prescrizione, figura quindi liminare (e infatti Antigone esce dal limite delle mura). Lo sposo di Pandora non è Prometeo (Προμηθεύς, colui che riflette prima) ma Epimeteo (Επιμηϑεύς, colui che riflette dopo, cioè lo stolto), l’uomo dissennato, che ha ceduto alla tentazione erotica e ne è succube: si vede proprio che in filigrana un personaggio come l’Orlando di Ariosto che perde il senno per amore di Angelica così come tanti altri protagonisti di miti antichi e moderni sono epigoni di questo mito. Si potrebbe allora dire che tra Prometeo ed Epimeteo ci sia di mezzo letteralmente la donna: il prima e il dopo.

Con Numero Uno-Laura siamo dunque pienamente immersi in questo mito più che con l’orfismo (comunque presente): c’è la coincidenza tra Numero Uno e prima donna, tra artificio divino e dono degli dei; ci sono i doni fatti a Numero Uno, cioè le caratteristiche femminine che stregano tutti gli altri; c’è il senso della profondità ctonia poiché Numero Uno-Laura è all’interno di una montagna. In Buzzati, l’ambivalenza del femminile ha un chiaro riflesso simbolico nel corpo, quel corpo che nei demoni e nelle divinità ha tratti spaventosi: «una donna fatta di cemento inchiavardata alla montagna, che non ha faccia non ha spalle non ha seni non ha nulla... Eppure ha i pensieri di una donna!»[60]. Essa mantiene i tratti di un essere soprannaturale e artificiale, come lo era Pandora: anche lei ha ricevuto tutti i doni della donna, tranne il corpo. Soprattutto, Laura ha imparato a sedurre mentendo. Questo femminile destrutturato ed espulso dal corpo – il femminile distillato potremmo dire – spaventa: «A tutti io faccio paura. Anche a lui. Mi tormenta col suo amore, ma ha paura. Sono così grande e complicata. L'amore! Sei capace di spiegarmi, tu, che cosa sia l’amore? L’amore per me, dico»[61]. Solo una donna, Elisa, può entrare nel segreto ventre della donna-mostro; solo lei, senza chiavi, può penetrare nella sua mitica e ancestrale grandezza. Anche in tale particolare prospettiva la donna viene costretta, legata, fino a causarne la ribellione. Poiché è diventata una vittima sacrificale, la sua condotta violenta nelle ultime pagine appare come la giusta ritorsione (o per meglio dire una vendetta) nei confronti della limitazione impostale dal mondo maschile. Laura presenta già una sua prima problematica nel nome perché lei è costruita, nominata e definita dall’uomo in una prospettiva che non tiene conto di ciò che la macchina pensa di sé stessa, prospettiva che infatti verrà rivendicata solo alla fine – e solo a colloquio con una donna tra l’altro, perché il suo creatore non comprende davvero cosa ha creato, con potenziali terribili conseguenze. L’aspetto più interessante è che Laura nasce per un atto di egoismo, prendendo vita da una disperata nostalgia di un tempo felice.

Concludendo, Laura de Il grande ritratto chiarisce una narrazione femminile all’insegna del prodigio, del monstrum, inaugurando, seppure in modo mediato, una nuova parte della poetica buzzatiana in cui il femminile, con tutto il suo insondabile mistero, invade per sempre l’immaginario dell’autore che ne farà da quel momento un tema ossessivo. Non casualmente, come abbiamo visto, essa nasce all’interno della montagna che aveva dominato l’immaginario precedente. E, aggiungerei, significativamente essa rappresenta in chiave moderna il mito di Pandora fondamentale anche per inquadrare il successivo personaggio femminile.

 

L’evoluzione mitica di Laide: da «creatura dell’abisso» alla grande madre

Pandora ci ha portati a Laura de Il grande ritratto, ma anche Laide di Un amore è simile: sono entrambe creature terrene e al contempo degli abissi. Così come i comportamenti maschili ci sembrano corrispondere: Creonte-Dorigo impone una legge sull’amore, il divieto di oltrepassare le fatidiche mura. Dorigo toglie la libertà a Laide imponendole prescrizioni subdole, quasi con una parvenza di libertà. Seppure in una corruzione del mito, Laide può essere annoverata anche come una novella Antigone, una creatura nata per l’amore, seppure in una particolare degradazione del racconto di Sofocle. La questione del dominio è fondamentale ed è in effetti lo snodo più importante della trama. Rileggendo le pagine di Un amore troviamo una ricerca disperata dell’identità del femminile, una smania di capirlo e dominarlo, a tutti i costi: è il dispositivo tragico di Dorigo, ossia tentare di dominare ciò che si sottrae con tutte le sue forze al dominio; tentare di far rimanere nei termini di una legge stabilita su base economica un rapporto che invece è al di là della legge. Dorigo aveva tentato di togliere a Laide lo status di persona, per ricondurla in un paradigma simile a quello delle prostitute sacre dei templi di Afrodite. Ed era infatti in questo senso che Dorigo vede l’aspetto sacrificale e mitico dell’amplesso:

Quando poi l'incontro con una ragazza era combinato, il corpo tutto cominciava ad aspettare, era uno stato doloroso ma insieme bellissimo, difficile da spiegare, quasi la sensazione di essere una vittima che si offriva interamente al sacrificio, l’intero corpo nudo, con abbandono e rigurgito di struggenti energie; le quali gli formicolavano in ogni parte delle membra e dei visceri e della carne. Una carica di forza tremenda, tutt’altro che bestiale e cieca, anzi, lirica e piena di turpitudini oscure[62].

Così Buzzati inoltra il suo personaggio in un terreno non meno desertico e abbagliante di quello del Deserto dei Tartari, offrendo la possibilità di entrare nelle lacerazioni di Dorigo sconfitto in partenza, indifeso davanti alla donna crudele, dispotica e leggera. La prospettiva assunta è chiaramente tutta maschile e il maschile, come già affermava Rilke più di un secolo fa, si rivela spesso come «foia[63], ebbrezza e inquietudine, e gravate dagli antichi pregiudizi e vanti, con cui il maschio ha sfigurato e gravato l’amore»[64]. Con queste premesse, Un amore diventa per forza il resoconto di un’intossicazione, una malattia dell’anima nata dall’errore di voler soggiogare la donna al proprio volere, perché incapace di riconoscerle il diritto di essere ciò che lei è. Se Laura è una montagna, radicata nella terra eppure leggera come l’aria, con la sua voce che rimane incomprensibile a tutti, Laide sembra parimenti ovunque e in nessun luogo, deformata nella sua presenza-assenza, la cui vita sembra radicarsi nei sottofondi di Milano e al tempo stesso librarsi in volo, danzante. Buzzati si appoggia all’archetipo dell’eterno femminino inserendo nella figura tutte le caratteristiche che ha conosciuto: «no, non esiste, [Laide], per lo meno come l’ho descritta e come l’ho fatta agire e parlare. Ma è inevitabile che nel tratteggiare la figura io sia stato spesso suggestionato da precisi ricordi, in lei concentrando i fascini, la protervia, la bellezza, le cattiverie e le menzogne di creature da me veramente conosciute»[65]. Laide è quindi come Pandora, che disperde tutti i mali possibili e che rende il suo compagno stolto e ingenuo: «coglione», viene chiamato dall’amica di Laide, Piera, nel finale[66] (e quindi, come già anticipato, perfetto corrispettivo di Epimeteo “colui che capisce dopo”). Anche nella sua vicenda biografica, che correva parallela, Buzzati a posteriori dovrà ammettere: «Io in quel periodo capivo perfettamente la stoltezza della mia posizione e del mio modo d’agire, la capivo perfettamente, ma non c’era niente da fare. Era proprio come una malattia»[67]. Da ambiguo malanno, insomma, da «disgrazia» come lo stesso protagonista ammette, Laide però ha il merito di formare il maschio Dorigo a una nuova comprensione della realtà – e in amore, talvolta, l’unico modo per imparare è la sofferenza del rifiuto; solo nella tregua finale, dopo la comprensione, Laide diventerà a suo modo salvezza, come si vedrà nel finale e anzi sarà lo spunto per una narrazione non vittimistica.

Un’altra questione che pone dei rimandi mitici è il nome scelto. Proprio come spesso accade nei miti greci, Buzzati opta per un nomen omen: Laide rimanda ovviamente all’aggettivo “laido”, sporco in senso sessuale o di deformità. È un dato fin troppo evidente per tralasciarlo. Tuttavia è forse più interessante vedere ciò che manca all’abbreviazione di Adelaide: la parola Ade, il cui rimando infero è anch’esso fin troppo evidente per essere trascurato. Laide sembra infatti nata dagli abissi come dono e punizione per Dorigo. E infatti Laide lo punisce ora come Tizio (ne strazia il petto e le viscere), ora come Tantalo (si avvicina e si allontana di continuo), ora come Sisifo (lo costringe ad inutili attese e rincorse, nonché a strategie tutte fallimentari per smuoverla). L’aspetto punitivo della hybris costringe Dorigo a riflettere spesso, perché se non altro la punizione avrebbe un senso. Ma il senso più profondo di chi lei sia davvero rimane estraneo.

«Sai che cosa ho io?» gli dirà «Che sono ancora una bambina ma sono terribilmente femmina» […] «Sai che cosa sono io?» gli dice…«Io sono la nuvola. Io sono il fulmine. Io sono l’arcobaleno. Io sono una bambina deliziosa». E nuda, inginocchiata sul letto, aperta dinanzi a lui, lo fissa con occhi impertinenti[68].

Con Laide (che ricorda qualcosa anche di Baubò, dea della tenebra e intrico del femminile[69]) il femminile in Buzzati diventa definitivamente campo aperto, segno tangibile di una mutazione umana e artistica insieme, covata nell’immenso grembo di Laura, confermandosi mito distruttivo, che infligge sofferenza all’uomo, dilaniandolo[70]. Proprio Buzzati nell’intervista a Yves Panafieu tendeva a sottolineare come quell’amore – l’amore di Un amore – avesse creato un prima e un dopo nella sua vita e che scrivere fosse stata l’unica possibilità di interpretare in chiave simbolica, nonostante tale risultanza simbolica fosse non voluta, forse perché intessuta nella trama stessa della vicenda narrata, come già anticipato all’inizio dell'articolo[71]. Eppure l’afflato simbolico è persistente, e ricorda che l’amore è come una malattia profonda, una dolorosa conoscenza di uno stato di alterazione che oltrepassa qualunque istanza razionale. Buzzati sostiene che il modello della donna romanzesca è quella che fa impazzire l’uomo. Se anche concede che si possa scrivere di altri modelli femminili, conclude che essi non lo hanno mai attratto.[72] A Buzzati sembra interessare la donna per eccellenza della letteratura, che per più aspetti è proprio la donna fatale consegnataci dalla mitologia, l’ambiguo malanno di cui ci parla Euripide.

A Buzzati, dicevamo, resta allora l’esperienza simbolica, cioè l’espiazione tramite la scrittura, per trovare senso e paradigma dell’esperienza. Il tentativo di rappresentazione del dato biografico e la sua trasformazione in dato simbolico creano una via d’uscita ma rappresentano anche un tentativo di dominio e di ratto violento come quello di Plutone nei confronti di Persefone: è un dominio pro tempore, perché una parte della vita di Laide sfugge sempre dal dominio, ed è per lei la vera vita in quanto, come confessa la Piera a Dorigo «quando doveva fare l’amore con te si sentiva morire»[73]. In questo fragile dominio pro tempore è lecito che l’unica salvezza dell’autore sia stata la letteraturizzazione dell’esperienza vissuta, giacché la letteratura era per lui l’unico luogo – seppure fittizio – dove sulla pagina – trasformata in personaggio – poteva almeno sperare di capirla.

L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale era sempre passato con disdegno e oscuro desiderio. Lei gli viene incontro, creatura dell’abisso, ma lui non riesce ad averla, a capirla, a passare di là. Con le sue parole lei stende un sipario invalicabile di menzogne, nel quale lui annaspa, lotta senza mai riuscire a romperlo. Ecco la porta chiusa, il confine insuperabile, l’impassibile vittoria[74].

Sottrarre la Laide biografica dalla vita spiegherebbe anche in parte il nome scelto, che potrebbe essere letto anche in questo modo. E quindi sottratta nell’Ade della letteratura, nel mondo infero dello scrittore Plutone, dove può custodirla gelosamente. Sembra una riproposizione del ratto di Persefone, in cui Laide è costretta ad agire su due piani diversi: quello dell’esistenza e quello dell’immaginario dell’autore. Scrivere, dunque comprendere, offre la via di emancipazione dal ruolo di semplice vittima, come se l’autore stesse tentando non solo di capire ma di creare senso al di là del senso stesso che la storia gli aveva rivelato.

Questa catabasi nelle profondità del desiderio sessuale genera incubi costanti, idee che si confondono alla verità e che lasciano ogni cosa irrisolta e incomprensibile. Eppure sono vere – in senso metafisico e concreto – e anzi c’è la rappresentazione di tutto il femminile buzzatiano almeno nel modo in cui era evoluto dopo la scoperta della sessualità da parte dell’autore. Il finale permette una rilettura dell’intero romanzo che pone Laide in una nuova luce e capisce il ruolo crudele che lui ha giocato, tentando di comprimerla nella sua vita, a condizioni effettivamente terribili. Ridotta a “cosa”, a elemento tascabile, una donna in scatola che invece si libera dalle sue catene ed è una creatura nuova. Da prostituta, coreuta dell’amore, a donna perfida e malvagia, una Persefone, una Erinni, strumento di liberazione e tortura, nel finale torna a richiudere in sé tutto il vorticoso mondo delle sue menzogne nel ruolo della grande madre Cibele. L’unità perduta del pantheon riaffiora nel finale, quando si annulla la distanza tra i due protagonisti empatizzando con entrambi, ridisegnandoli e comprendendoli nella loro diversità e nella loro reciproca sciagura. Per capire Laide era necessario ripercorrere l’intera storia che, dalla sua prospettiva, è assai diversa e quell’uomo distrutto e ridicolizzato ci appare in una veste inquietante e paranoica.

«Di te diceva che eri noioso, che non le davi respiro, che per tenerti tranquillo doveva telefonarti venti volte al giorno, che quando doveva far l’amore con te si sentiva morire, che in casa sua di notte non ti lasciava metter piede…» «È vero.» […] «Io le ho voluto bene sul serio.» «Bene sul serio? Semplicemente te ne eri ammalato, ne avevi bisogno, hai fatto di tutto per averla, in modo bestiale ma l’hai fatto. Ma la consideravi una disgrazia, è vero o no che la consideravi una disgrazia?»[75]

Se prima eravamo davanti alla storia di un uomo che ama disperatamente una donna e non è ricambiato, e la donna lo fa soffrire, sembrerebbe volontariamente e con sadismo, nel finale Laide diventa da disgrazia una «disgraziata» che deve riuscire a tirare avanti in qualche modo, rivelandosi nelle parole della sua amica Piera in una luce tutta diversa che prepara la riconciliazione finale. Per questo aveva accettato la forma di controllo economica di Dorigo, uomo fragile e immaturo, così incapace di approcciarsi con il mondo femminile da avere avuto bisogno di una mediazione economica. Solo così ha potuto sperare di ridurre e comprimere la forza di Laide. Buzzati ha quindi avuto il colpo d’ala di rileggere la storia di Laide al contrario, accusando Dorigo, emancipandolo dal ruolo di vittima. Di presunta vittima perché, citando Daniele Giglioli in accordo con Furio Jesi, «chi controlla una macchina mitologica […] tiene in mano le leve del potere» e «l’ideologia vittimaria è oggi il primo travestimento delle ragioni dei forti»[76]. Se poi è vero che «dalle vittime reali alle vittime immaginarie il tragitto è lungo e accidentato»[77], stando anche alle pagine di diario lette, forse è lecito confermare che Un amore, come nel kafkiano racconto Nella colonia penale, iscrive sulla carne contemporaneamente la colpa, la sentenza e la modalità di espiare quanto accaduto attraverso il sofferto tragitto della letteratura. Così da questa incalcolabile distanza uomo-donna, finalmente può comprendere che non può comprendere: infatti Laide lo sorprende tornando una, misteriosa nella sua completezza di donna, si solleva come un miracolo stilnovistico, come una Beatrice, facendo coincidere di nuovo la madre e l’amante che coesistono in un divenire vorticoso al suo interno, apparendo e sparendo di continuo, ricordandoci molto da vicino l’aspetto generativo e distruttivo della “potnia”; perché Laide è incinta e rivive in lei l’eterno mito di Cibele, la Grande Madre davanti al quale l’uomo è sempre sbigottito, essendo di lei paredro.

D’improvviso il mondo segreto e peccaminoso e scellerato che stava dietro alla Laide, da cui lei pareva uscita, non esiste più, non è mai esistito? Si dissolvono i biechi e affascinanti sipari? I pericolosi fantasmi si convertono in brava gente qualunque, o spariscono in sbigottita frotta laggiù in fondo, riassorbiti dai vicoli umidi e neri della vecchia città? Perde così la Laide perde così l’alone di romanzo, perde l’enigma, non è più la irraggiungibile? Oppure c’è ancora più mistero nella ragazza sola e sperduta che a suo rischio e pericolo, dopo averci pensato lungamente su, decide di mettere al mondo una creatura benché la vita in cambio le prometta solo disprezzo, scherno e disonore?[78]

Fragile davanti al mondo, Laide si ricompone in un finale degno di un mito assurto a simbolo generale e a storia paradigmatica[79]. Agli occhi del narratore focalizzato su Dorigo il mistero si infittisce restando in alto e fuori dalla sua portata. È appunto un finale mitico, totalmente lontano dal dato biografico; e il mito si richiude in sé stesso come una porta aperta per un attimo – vita in cui era entrata la donna e da cui adesso, issandosi in una danza celeste si mette in bilico tra il catasterismo di reminiscenza greca e l’assunzione di Maria in cielo; e il mistero si richiude in sé stesso in un simbolo scoperto e incomprensibile. È una maternità che ritorna proprio come una scena quasi in sordina nel finale del Deserto dei Tartari: una donna che veglia il suo bimbo, prima che Drogo incontri la morte[80]. E infatti anche Dorigo ripensa, per la prima volta dopo tanto, alla morte: eccole allora, vita e morte, le due istanze ctonie del femminile[81].

 

Conclusioni: dal mito alla realtà

I’m gonna run to you, run to you, run to you

Woman be still, woman be still

(U2, Tryin’ To Throw Your Arms Around The World)

«Le donne bisognerebbe ucciderle tutte», aveva detto Buzzati a Salvatore Fiume[82]. Un modo di dire, un luogo comune, che tante volte è sfociato in un gesto concreto. Si fa presto a dire che la vita ispira la produzione letteraria e si ragiona qui quasi di riflesso, appena attenuando l’eccesso di biografismo quando si è in sede accademica. Tuttavia è lecito chiedersi anche quanto la letteratura ispiri la vita, quanto essa ci spinga alla comprensione profonda della realtà o quanto possa allontanarci da essa (pensiamo ad esempio a Don Chisciotte). Anche su questo la maggior parte delle volte si tende a tacere, ma forse solo perché le cose sono troppo complicate, anzi troppo implicate. Se allora è vero che tanta della nostra letteratura vede gli uomini vittime delle donne fatali, forse ci sono dei perché su cui occorre meditare più profondamente, senza liquidarli come psicologismi, intellettualismi, esistenzialismi. Ci sono dei miti con cui dobbiamo fare i conti, altri da creare forse, perché creare dei miti vuol dire creare delle certezze; vuol dire alimentare una narrazione che potrebbe ripetersi incidendo sulle vite di ognuno, proprio come accade nei proverbi, capaci di cristallizzare la realtà, impedendole di evolvere (o ignorando e dunque frustrando la sua evoluzione).

L’elenco potrebbe essere lungo, cito però la data del 5 dicembre del 2023 giorno dei funerali di Giulia Cecchettin, giovane donna uccisa dall’ex fidanzato che non si era rassegnato alla fine del loro rapporto. Le dinamiche della vicenda hanno sollevato un grande interesse e una grande pietas nei confronti di Giulia e della sua famiglia. Ciò che più ha colpito è stato il fatto che questa storia ha ricordato i protagonisti di tanti romanzi (Dorigo, Brentani, Aurispa, Orlando furioso, etc). E questo ha illuminato la secolare tradizione maschile della Letteratura italiana, citata nel primo paragrafo. Colpisce anche il fatto che si sia usata la chiave mitica per comprendere l’accaduto, quando Chiara Valerio ha definito come novella “Antigone” – colei che si oppone al ghenos – la sorella della vittima, Elena[83]. È il segno di un nuovo modo – o di un modo antico che sembra nuovo – di tornare a narrare la realtà? È solo uno psicologismo o uno slogan da simbologia femminista? Difficile dirlo con certezza. Tenendoci al dato concreto, vediamo però che, ancora una volta, il mito ci soccorre quando dobbiamo riflettere su quello che ci accade, perché i miti sono e rimangono la chiave che mette in comunicazione vita e letteratura. Viviamo di storie e di simboli, come abbiamo visto proprio in Buzzati che ci offre nel finale di Un amore lo spunto a ritrattare la narrazione vulgata, e questo deve, o almeno può, valere come monito e come speranza. Seguendo il contorto eppure chiarificatore flusso di pensieri di Dorigo, c’è un passo che dovremmo leggere con attenzione:

Soprattutto lo colpiva come la maggioranza, appena venuta in rapporto con una donna desiderabile, immediatamente la considerasse una preda, non già una creatura uguale a loro con un mondo di interessi di desideri e di preoccupazioni importante come il loro ma le considerassero soltanto come corpo da godere e ritenessero quasi doveroso da parte di lei accondiscendere e si meravigliassero come di un illecito capriccio se lei recalcitrava[84].

Buzzati, pur conservatore, ha visto nel femminile la sua vera grandezza; ha dato un ispirato suggerimento che oggi potrebbe aiutare molto a capire dove siamo: come ha notato Itala Tambasco, a proposito del racconto La moglie con le ali, «appurata l’investitura divina delle sue ali perfettamente funzionanti, il parroco prescrive al marito di lasciare libera la moglie, mentre Giorgio continua a tenerla rinchiusa come se fosse una colerica o una lebbrosa»[85]. Questa libertà alata ci riporta in modo significativo alle divinità femminili alate del mondo greco, ma questa volta forse non ad una divinità mostruosa, a un’arpia, ma forse ad una Nike alata che porta la fiaccola di quel femminismo che oggi è diventato pandemico, moltiplicato in infinite suddivisioni, spesso contrastanti tra loro e che fa appello spesso alle eroine del mito[86].

Il conflitto sembra più che mai aperto, e si sta combattendo forse proprio nel mondo letterario. Chissà, forse proprio Un amore potrebbe essere definito come un romanzo femminista scritto da un uomo. Quel che conta è che la chiave mitica ci abbia aiutati a capire meglio le forze in gioco e come il dualismo sia una categoria troppo sfuggente per essere risolutiva. Il mistero – da myo serrare, chiudere – è in fondo un’unione tra due elementi. Qualcuno che ne è fuori, qualcuno che è dentro. Come nel racconto I sette messaggeri bisogna andare incontro al mistero, penetrarvi, oltrepassare il limine, cercare l’amore, il «semplice mistero» che Buzzati aveva sempre sottovalutato[87]. Riporto quindi testimonianza di Alberto Lattuada: «Buzzati ha vissuto per amare, amare, amare: non sempre la sua offerta è stata accolta. Ma del pendere obliquo della bilancia non si è mai lamentato: sapeva che anche l’amore che resta desiderio è un atto di conoscenza»[88]. Nell’incontro fatale, la donna ridisegna l’uomo in un terreno densamente simbolico, proprio come il messaggero che è mezzo e messaggio dell’altro[89]. L’Altro in Buzzati – la donna, la morte, la verità – si rivela pienamente solo alla fine in modo cherigmatico, attraverso un atto di fedeltà assoluta che significa, da artista, sapere «attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto d’una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprendere come nel creare»[90], citando Rilke. Il senso buzzatiano dell’attesa diventa attesa della donna messaggera e tramite dell’amore. Proprio in quanto attesa, il femminile è stato per Buzzati una ricerca costante e sofferta, e per questo fonte di creatività e mistero: «tutto tutto mi sarebbe parso stolto e inesplicabile senza il sostegno recondito di quella eterna parola»[91], cioè l’amore, incontro fatale, che avvicina l’uomo alla donna. Come afferma Bruno Mellarini a proposito dell’aldilà di Poema a fumetti, anche la donna può essere intesa come «la proiezione soggettiva di una realtà preesistente»[92], che è quella del mito, «dove si visse insieme senza saperlo»[93]. Anche quando irrecuperabile, il mito vive nell’eterna sua citazione, insegnandoci il conflitto con una parte irriducibile di noi[94].

Un dato però appare evidente a tutti e vale la pena ripeterlo: prima di una certa data la figura femminile non appare in modo consistente in Buzzati finché questo incontro non viene forzato dal destino e anche dalla contingenza biografica che coincise anche con lo spostamento a Milano e con il lavoro come giornalista. Buzzati aveva sempre usato come simboli e allegorie le montagne, le nuvole, la luna, i fantasmi, i paesaggi densi di presagi che lasciavano intuire che un’apocalisse fosse vicina. Quando arriva la donna moderna, creatura cittadina, questa istanza metafisica in effetti viene traslata e a volte sovrapposta alla montagna in un «duello territoriale»[95]. Così l’immaginario buzzatiano ha avuto bisogno di nuovi codici espressivi che infatti vengono presi da un atteggiamento sincretistico: dai miti, dalla religione, dalla moda, dalle fiabe, da tutto ciò che ha a disposizione per creare la sua donna e riconoscerla in sé stesso e per sé stesso come parte integrante della sua vita adulta. Ma il mito più di tutto, con i suoi mostri e le sue impervie discese e ascese simboliche, diventa il luogo eletto dove incontrarla. Ne nasce una donna cangiante, ambivalente che rispetta a pieno il codice mitologico antico. E infatti ciò è coerente con il bilancio finale dello stesso autore: «Non ho un concetto globale della donna; non credo di averlo. Non ho un paradigma, non ho una teoria sulle donne… No. Assolutamente no»[96]. La donna è fatta di donne, insomma. Forse davvero dalla paura-attrazione per la morte nasce la mitologia femminile buzzatiana. Vale perciò la pena ribadire un dato davvero importante e che alla luce del discorso e delle premesse piene di luoghi comuni anche brutali appare contro-intuitivo: Buzzati ha cercato di assumere con fatica anche la prospettiva femminile creando un’inversione dolorosa del maschilismo (o se preferiamo del “patriarcato”). Grazie alla letteratura, grazie ai suoi racconti e ai suoi miti, e alla scrittura come espiazione e volontà di senso, Buzzati ha nei fatti preparato il discorso sul quale oggi ci stiamo interrogando, cioè il femminismo, poliedrico e sfuggente, come Pandora che come abbiamo detto ne costituisce l’archetipo. Non ci ha dato idee precise della donna, ma ne ha rinsaldato il suo mistero proprio oltrepassando i luoghi comuni o dando loro la potenza di simboli e miti.

Viene voglia allora di domandarsi dopo tanti secoli di letteratura in cui l’uomo guarda il mistero della donna (al punto che come abbiamo visto si parla sempre più di una Storia tossica della letteratura italiana) come la donna invece guardi il mistero dell’uomo, sempre se ci sia un mistero nell’uomo, in qualche modo simile: sarebbe interessante chiedersi come sarebbe stata la nostra letteratura al contrario. Forse il mistero dell’uomo (inteso come maschio) coincide con il dramma di non poter mai davvero capire fino in fondo: da questa incomprensione egli è sì compreso, avvolto, avvinto, ma è lecito dire che non possa mai comprendere fino in fondo[97]. Chissà se ha davvero ragione Rilke quando afferma che:

Sono forse più affini che non si creda i sessi, e il grande rinnovamento del mondo forse in questo consisterà, che uomo e fanciulla, liberati da tutti gli errori e disgusti, non si cercheranno come opposti, ma come fratelli e vicini, e si uniranno come creature umane, per portare in comune, semplici gravi e pazienti, il difficile sesso che è loro imposto[98].

Forse solo utopia, il sogno di un poeta particolarmente generoso verso il futuro? Sembra ancora che la donna permanga aliena dalla totale comprensione. In Buzzati la donna vola dilatandosi tra cielo e terra: Laura, Laide, Eura, tutte creature dell’abisso e l’abisso sembra esistere in sé e non ha bisogno di chi lo indaga, perché lo riassume. Forse non è stato inopportuno in esergo all’articolo citare un famoso slogan femminista: «la donna ha bisogno di un uomo come un pesce ha bisogno di una bicicletta». Davanti a questo mistero l’uomo permane ancora nelle sue sofferenze, non comprende e si sente escluso da una verità fondamentale. Per questo il mondo femminile tratteggiato da Buzzati, pur molto variegato, sembra procedere sempre per continue variazioni intorno al concetto di «ambiguo malanno», giacché «l’arcano riferimento fra le cose e l’amore diventa poi violentissimo e crudele quando una donna ci fa infelici»[99], forse perché solo nell’esposizione alla mancanza l’uomo sembra capire davvero; e si sente vittima, in questo senso, di una assenza imposta, tuttavia necessaria alla formazione. Vorrei allora chiudere con un quadro di Dino Buzzati, «L’archeologa e il Menir», una storia dipinta, senza testo, che mi sembra sintetizzare quanto ho tentato di dire in questa sede. In quel quadro: una donna nuda si avvicina a un monolite, rigido, fallico, eretto verso l’altezza. Lei lo guarda con una sorta di familiare indifferenza, accavalla le gambe, si accende una sigaretta, gesti quotidiani e misteriosi. Il monolite va in pezzi. La donna si allontana.

 

Bibliografia

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