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Le flessioni dell'anguilla: la creatività di Montale in quattro paradigmi

Eugenio Montale may be considered one of the most – if not the most – versatile Italian poet of the 20th century. Drawing on an idea by Gilles Deleuze, according to whom literary creativity consists in "carving a foreign language" out of the one already given, this specifically poetic creativity is here examined with a focus on four particularly significant paradigms in Montale's poetry: the poetics of landscape, the temporality of occasione, the recourse to stilnovismo's angelic muses and, finally, the quotidian world of discourse. Although these different inspirational sources, despite their gradual, diachronic emergence retain some degree of copresence within the later works of Montale, they nonetheless serve to draw a fault line between the poetry of the 'first' and 'second' Montale, suggesting a substantial change in his conception of reality: Whereas the first stage of Montale's poetry enacts a phenomenological understanding of the world, marked by potentiality and promise, the second points to a more and more textual view of the world, in which experience and singularity are overgrown by the levelling force of language.

 

Parlare della creatività nella poesia di Montale obbliga per forza a tenere conto della varietà stilistica e dell'ampiezza poetologica di un'opera per questi aspetti quasi senza pari nella poesia italiana del Novecento. Dall'esordio degli Ossi di seppia attraverso Le occasioni e La bufera e altro fino a Satura e le ultime raccolte quasi ogni nuovo libro di poesia montaliana implica un riorientamento sostanziale dell'ispirazione lirica e del processo creativo. Prima di continuare sarà utile però esplicitare brevemente ciò che vogliamo intendere per 'creatività'. Alla luce dell'amplissima diffusione del termine sarebbe impossibile fornire in poche righe un riassunto di tutti i discorsi centrati sulla 'creatività'.[1] Preferiamo adottare invece – e per ragioni puramente pragmatiche – una formula di Gilles Deleuze che a nostro parere (e nonostante le differenze ideologiche tra Deleuze e Montale) dialoga piuttosto bene anche con la componente più sperimentale della poesia di quest'ultimo. Secondo Deleuze lo scrittore (o nel nostro caso: il poeta) ha sempre a che fare con una lingua ereditata, a partire dalla quale spetterebbe a lui di 'tagliare una lingua straniera'.[2] La creatività poetica quindi non saprebbe mai agire ex nihilo, ma sempre mediante un codice linguistico già dato, di cui si tratta di "spostare i confini”. Sulla base di una convinzione simile, la creatività di una data opera poetica non potrebbe che misurarsi, dunque, relativamente all'efficacia di un tale spostamento. A questa condizione aprioristica la definizione di Deleuze sembra aggiungere un altro elemento che tende a sottolineare la temporalità del processo creativo nella poesia moderna. La metafora della 'lingua straniera' implica un'assimilazione quasi inevitabile. Le lingue straniere s'imparano, frammenti di esse penetrano nelle consuetudini comunicative di ciascuno, e spesse volte l'apparente alterità iniziale finisce col trasformarsi in abitudine, o tradizione – ciò da cui può dipendere un processo reiterato di ri-straniamento. È proprio l'osservazione di una dinamica di questo tipo, imprevedibile e costellata di metamorfosi, che spinse Romano Luperini a battezzare Montale "il più 'dantista' dei nostri poeti del Novecento" (Luperini 1999, 123), così accennando simultaneamente alla macrostruttura di un percorso "aperto" della lirica montaliana – percorso ispirato al modello dantesco per l'appunto –, ed al suo continuato "plurilinguismo" che, secondo un celebre lavoro di Gianfranco Contini, sarebbe ugualmente erede dell'enciclopedismo di Dante (cf. Contini 1970, 169-192). Nel presente saggio purtroppo sarà imperativo limitarsi alla trattazione di quattro paradigmi principali della creatività montaliana, intesa, per quanto possibile, nella sua diacronia. Verranno quindi discussi a) il paesaggio, b) la temporalità dell'"occasione", c) il ricorso alla donna angelicata e per finire d) l'ispirazione terminologica, caratteristica del secondo Montale, cioè quello che esordisce con Satura (1971). La discussione di questi paradigmi in chiave cronologica non deve suggerire l'impressione che si tratti di una serie di sostituzioni; si assiste invece allo stabilirsi graduale di una copresenza di spinte possibili del processo creativo radunando risorse 'extralinguistiche' (paesaggio, l'occasione vissuta) e 'intralinguistiche' (il ricorso a Dante). È proprio questa pluralità di spinte a contribuire alla gamma straordinaria della poesia di Montale. Oltre che al modello dantesco, il percorso poetico di Montale potrebbe facilmente essere paragonato al meandrico cammino del pesce eponimo nella poesia L'anguilla, un animale quasi totemico della produzione montaliana, le cui flessioni coincidono – in modo anagrammatico – con le inflessioni della lingua (ANGUILLA = LA LINGUA) (cf. Zambon 1994, 116).

1. L'apertura del concreto: il paesaggio

Tra i tanti lettori di Ossi di seppia dovrebbe poterci essere unanimità rispetto al ruolo essenziale che adempisce il paesaggio in questa prima raccolta poetica. L'imporsi quasi automatico del profilo geografico della Liguria in cui nacque Montale viene affermato per esempio da Italo Calvino, anche lui cresciuto in questa regione: "Montale […] mi pareva di poter[lo] leggere quasi sempre in chiave di memoria locale, nelle immagini e nel lessico" (Calvino 2016, IX). Tuttavia sarebbe ingenuo presumere che Montale sia stato il primo poeta italiano moderno ad aver approfittato del potenziale estetico del paesaggio. Questo verrebbe confutato anche soltanto dalla straordinaria presenza del paesaggio nella poesia della generazione precedente, dominata dalle tre corone moderne, cioè Carducci, Pascoli e D'Annunzio. Alla luce di questa tradizione del paesaggio lirico, da alcuni fatto risalire fino a Petrarca,[3] occorre precisare l'uso particolare propostone da Montale, ovvero le caratteristiche distintive di questa riattivazione da parte sua di un topos poetico di lunga durata.

L'attrazione esercitata dal paesaggio e dalla sua concretezza materiale risalta già nella poesia più conosciuta e al contempo forse più "astratta" degli Ossi. In Non chiederci la parola… la celebre riflessione metalinguistica e metapoetica come anche il dubbio epistemologico dell'io lirico s'articolano in termini provenienti da un lessico ancorato al concetto di paesaggio.[4] La parola negata di una illuminazione poetica che "risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato" insieme con la (affermata) "sillaba storta e secca come un ramo" si servono di un'evidenza "paesaggistica". La presenza materiale ed immediata del paesaggio costituisce così un livello zero della lingua poetica, una sfida e un punto di partenza per l'elaborazione di una poesia originale e irreducibile agli schemi consacrati dalla tradizione. Negli Ossi di seppia osserviamo dunque la riuscita di un paradosso: attualizzando un topos della tradizione poetica, il paesaggio, Montale annulla la validità di questa stessa tradizione e aspira invece ad un'autenticità poetica mai raggiunta prima.[5] All'elaborazione del paesaggio quale punto zero della poesia s'integra la sua fisionomia tipicamente marcata da asprezza e aridità, così come da una tonalità quasi mai idilliaca, ma tutt'al più vicina al sublime. La costa ligure nella poesia montaliana supera in tal modo il suo stato di contingenza biografica e si trasforma in fonte creativa, spazio di sperimentazione in cui il fascino del concreto e la ricerca di una possibile dimensione simbolica – di un simbolismo sempre "controllato” dall'umiltà del reale – diventano quasi indistinguibili. Per accennare al dinamismo del paesaggio negli Ossi di seppia, alla sua variabilità e alla complessità crescente dei suoi significati possibili, vale la pena discutere, seppur in maniera sommaria, due esempi: la poesia Fine dell'infanzia e il trittico lirico L'agave sullo scoglio.

All'inizio di Fine dell'infanzia il paesaggio che circonda l'io lirico si presenta in modo quasi ostile:

 

Rombando s'ingolfava

dentro l'arcuata ripa

un mare pulsante, sbarrato da solchi,

cresputo e fioccoso di spume.

Di contro alla foce       

d'un torrente che straboccava

il flutto ingialliva.

Giravano al largo i grovigli dell'alighe

e tronchi d'alberi alla deriva.1-9

Questa 'natura matrigna' qui ancora presentata in chiave leopardiana verrà profondamente cambiata nel processo commemorativo, attraverso la ricostruzione successiva del mondo dell'infanzia e della sua realtà vissuta. Già nella strofa seguente, in cui si opera la transizione, la baia ligure si trasforma in "conca ospitale"10 dove "[p]ure colline chiudevano d'intorno / marina e case"23-24. Il paesaggio acquista così le connotazione di sicurezza e intimità tipicamente associate al grembo materno. Neanche le escursioni sporadiche dei bambini nelle montagne che formano i confini naturali di quel mondo riescono a turbare la sua autosufficienza:

 

Ma dalle vie del monte si tornava.

Riuscivano queste a un'instabile

vicenda d'ignoti aspetti

ma il ritmo che li governa ci sfuggiva.

Ogni attimo bruciava   

Negl'istanti futuri senza tracce.

Vivere era ventura troppo nuova

ora per ora, e ne batteva il cuore.

Norma non v'era,

solco fisso, confronto, 

e sceverare gioia da tristezza.

Ma riaddotti dai viottoli

alla casa sul mare, al chiuso asilo

della nostra stupita fanciullezza,

rapido rispondeva       

a ogni moto dell'anima un consenso

esterno, si vestivano di nomi

le cose, il nostro mondo aveva un centro.51-68

Con la maturazione del soggetto e l'isolamente "benigno” di questo microcosmo infantile giungerà il giorno in cui la fine dell'infanzia verrà a coincidere con la trasgressione di una soglia:

 

Un'alba dové sorgere che un rigo

di luce su la soglia       

forbita ci annunziava come un'acqua;

e noi certo corremmo

ad aprire la porta

stridula sulla ghiaia del giardino.

L'inganno ci fu palese. 

Pesanti nubi sul torbato mare

che ci bolliva in faccia, tosto apparvero.84-92

Il paesaggio in forma di conca viene sostituito da un paesaggio marcato dall'immensità di un orizzonte irraggiungibile in cui all'io lirico non spetta altro che una posizione instabile e precaria, tipicamente rappresentata da una soglia, da una riva o da uno scoglio. Seguendo una proposta terminologica di Karlheinz Stierle, un 'paesaggio da vicino' ("Nah­landschaft") viene sostituito drammaticamente da un 'paesaggio alla lontana' ("Fernlandschaft").[6] Sarebbe però sbagliato affermare che la funzione del paesaggio nella poesia di Montale si esaurisce in questa messinscena lirica di un paradiso perduto. Anzi, il paesaggio in quanto risorsa poetica è altrettanto capace di articolare nuove sintesi. Mentre la celebre poesia Arsenio evoca ancora la nuova situazione 'liminale' dell'adulto acuendosi fino alla considerazione del suicidio, il trittico L'agave sullo scoglio supera quest'aporia affermando la posizione irrevocabilmente fragile dell'io lirico, qui figurata dallo scoglio scosceso.[7] La prima parte, senza titolo, ma con il nome di un vento in epigrafe, rivela il pericolo continuo che minaccia la pianta esile:

 

Scirocco

 

O rabido ventare di scirocco

che l'arsiccio terreno gialloverde

bruci;

e su nel cielo pieno

di smorte luci              

trapassa qualche biocco

di nuvola, e si perde.

Ore perplesse, brividi

d'una vita che fugge

come acqua tra le dita;              

inafferrati eventi,

luci-ombre, commovimenti

delle cose malferme della terra;

oh alide ali dell'aria

ora son io                    

l'agave che s'abbarbica al crepaccio

dello scoglio

e sfugge al mare da le braccia d'alghe

che spalanca ampie gole e abbranca rocce;

e nel fermento                           

d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci

che non sanno più esplodere oggi sento

la mia immobilità come un tormento.1-23

In quanto correlativo oggettivo del soggetto nella sua angoscia esistenziale, la concretezza dell'agave nel suo 'setting' paesaggistico si dimostra adatto ad articolare pensieri ed emozioni altrimenti quasi ineffabili. Quest'appropriazione crescente "d'una vita che fugge"9 attraverso il linguaggio poetico viene poi confermata dalla terza parte del testo, posta nel segno del Maestrale la cui mitezza tende a guarire i tormenti sofferti:

 

Maestrale

 

S'è rifatta la calma

nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.

Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma

a pena svetta.

 

Una carezza disfiora                   

la linea del mare e la scompiglia

un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora

il cammino ripiglia.

 

Lameggia nella chiaria

la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata      

e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia

vita torbata.

 

O mio tronco che additi,

in questa ebrietudine tarda,

ogni rinato aspetto coi germogli fioriti    

sulle tue mani, guarda:

 

sotto l'azzurro fitto

del cielo qualche uccello di mare se ne va;

né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:

'più in là!'1-20

Allo sbocciare dell'agave corrisponde sul piano formale e tipografico l'emergenza di una forma poetica. Mentre le due prime poesie consistono ancora di una sola strofa senza rime e articolazione spaziale, la terza poesia conchiude con cinque quartine a rime alternate – un livello di strutturazione formale peraltro abbastanza raro nella produzione poetica di Montale.

I due esempi brevemente ripresi non esauriscono naturalmente la rilevanza del paesaggio nell'opera montaliana. Essi mostrano però, grazie alla loro opposizione implicita, la variabilità del paesaggio lirico quale "risorsa inesauribile del concreto”. Tutt'altro che la semplice rappresentazione di una data realtà materiale, il paesaggio rafferma in se stesso una sintesi celata del soggetto che guarda e così suggerisce idealmente l'incontro unico e irrepetibile di una soggettività e di una realtà che si rispecchiano vicendevolmente.[8] Non solo nella sua trasposizione lirica, bensì in ogni sua figurazione estetica, il paesaggio non ci presenta mai un dato puro, ma il risultato di un atto, ed è la singolarità di quell'atto che può liberare le parole dalla sclerosi della tradizione poetica, collegandole con le infinite particolarità del concreto.

2. La pluralità del tempo: l'"occasione"

Se si decide di dare credito a Glauco Cambon che definisce Le occasioni nei termini di una "descent into time" (Cambon 1979, 34), la transizione dagli Ossi di seppia a Le occasioni potrebbe intendersi allora come la scoperta di una nuova risorsa creativa, cioè del tempo e della sua intrinseca eterogeneità. A ben guardare, l'anatomia ambigua del tempo si riflette già nell'ambiguità semantica della parola 'occasione'. Dapprima questa può riferirsi semplicemente alla circostanza quotidiana che fornisce il motivo di una poesia (un matrimonio, un compleanno, una sepoltura, etc.) ; è così che viene intesa anche da Cambon, che però mette in relazione il concetto di occasione con quello di "Gelegenheitsdichtung" ("poesia occasionale"), che a sua volta rimanda ad una conversazione tra Goethe ed Eckermann, conversazione in cui Goethe spiega la seconda nozione come segue:

Die Welt ist so groß und reich und das Leben so mannigfaltig, daß es an Anlässen zu Gedichten nie fehlen wird. Aber es müssen Gelegenheitsgedichte sein, das heißt, die Wirklichkeit muß die Veranlassung und den Stoff dazu hergeben. Allgemein und poetisch wird ein spezieller Fall eben dadurch, daß ihn der Dichter behandelt. Alle meine Gedichte sind Gelegenheitsgedichte, sie sind durch die Wirklichkeit angeregt und haben darin Grund und Boden. Von Gedichten, aus der Luft gegriffen, halte ich nichts.
(Eckermann, 2011, 50)

Nel pensiero di Goethe, 'Gelegenheit' afferma il ruolo indispensabile di una realtà vissuta che potrà servire da spinta per una poesia. Una poesia priva di questo fondo reale sarebbe per Goethe "campata in aria" ("aus der Luft gegriffen"), cioè vuota ed inefficace. Benché quasi tutta la poesia montaliana si trovi in accordo con questo criterio, la rivendicazione del vissuto in quanto materia prima di ogni vera poesia non è sufficiente per esaurire il significato dell''occasione' montaliana. Conviene dunque in un secondo tempo sottolineare la sua discendenza da una concezione del tempo, esposta in lingua italiana soprattutto nella filosofia politica di Machiavelli. Secondo questa genealogia, il termine 'occasione' è più vicino al greco καιρός e designa un punto unico ed irrepetibile nel flusso continuo del tempo, punto in cui qualcosa d'imprevisto ed eccezionale può operarsi, se gli indizi vengono interpretati correttamente e l'occasione quindi "afferrata” (Rüdiger 1966 121-166). In entrambi i casi, per il principe ideale di Machiavelli alle prese con la Fortuna, ma ugualmente per Montale, il concetto dell''occasione' rafferma una riflessione profonda sulla struttura ambigua del tempo nel cui trascorrere uniforme – "l'ore / uguali, strette in trama"9-10 di Arsenio – si annuncia al vigilante la forza indomita del divenire.

La difficoltà maggiore in questa "epistemologia del momento giusto”, dell'attimo proficuo, risiede nell'indeterminatezza dei suoi indizi. Quasi tutti gli aspetti del reale possono fornire uno spunto per l''occasione', ma nel caso montaliano è evidente che sono principalmente gli aspetti meno vistosi della vita, i suoi oggetti ed eventi piuttosto trascurati e senza importanza prestabilita ad intervenire in tal senso. L'umiltà materiale delle spinte dell'occasione viene illustrata anche in una poesia così drammatica come Dora Markus, dove si evoca la storia di un'ebrea di origine austriaca durante il periodo fascista e nazista.[9] Nella seconda parte del dittico, Dora comincia gradualmente ad identificarsi con la storia transindividuale della diaspora ebraica, ma è una presa di coscienza che si opera lentamente, mediante un'osservazione attenta degli oggetti ereditati dalla sua famiglia:

 

La sera che si protende

sull'umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d'oche e un interno  

di nivee maioliche dice

allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.37-45

Quell'esame attento del proprio passato risulta nella constatazione di una profonda scissione sociale tra la sua famiglia assimilata e la società borghese dominante, così come nell'esplicitazione enfatica della propria marginalità:

 

La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d'oro e ritorna   

ad ogni accordo che esprime

l'armonica guasta nell'ora

che abbuia, sempre più tardi.

È scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina      

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

Voce, leggenda o destino…       

Ma è tardi, sempre più tardi.46-61

Nell'accettazione della leggenda in cui s'inserisce anche l'esperienza personale di Dora, l'occasione di Dora Markus descrive il momento in cui tutta un'identità viene rinegoziata ed affermata per servire da contravveleno al "veleno"58 di "una fede feroce"58 ; qualcosa di analogo accade a questa 'vita nuova' ispirata però da fotografie ingiallite, da un'"armonica guasta"52 e dal "sempreverde / alloro per la cucina"54-55, insomma da una realtà dimessa ma, nel prisma dell'occasione, non meno capace di operare mutamenti profondi. Sebbene la protagonista di Dora Markus riesca ad afferrare l'occasione, la fragilità di quella minuscola particella del tempo viene chiarita dal controesempio di un'occasione mancata che forma il nucleo tematico di Carnevale di Gerti, la cui azione si situa in un carnevale fiorentino. Malgrado la gioia sfrenata che la circonda, la protagonista di questa poesia si tiene come in "melanconico distacco” rispetto alla turba festeggiante. Assorta nei ricordi di amici assenti e soprattutto di una festa di capodanno passata, Gerti, mediante la voce dell'io lirico, formula il desiderio di rivivere quel breve periodo felice della sua vita. Ma l'accanimento con cui oppone il ricordo alla realtà presente si traduce, per finire, in una forma di regressione infantile. Quest'ultima sembra appartenere ad una dimensione esente dall'irreversibilità del tempo:

 

Ed ora vuoi sostare dove un filtro

fa spogli i suoni

e ne deriva i sorridenti ed acri

fumi che ti compongono il domani:

ora chiedi il paese dove gli onagri           

mordano quadri di zucchero alle tue mani

e i tozzi alberi spuntino germogli

miracolosi al becco dei pavoni.16-23

Spetta all'io lirico, che in questa poesia adempie una funzione propriamente terapeutica, di spingere Gerti ad accettare l'inevitabilità del tempo come la conditio sine qua non della sua propria esistenza:

 

La tua vita è quaggiù dove rimbombano

le ruote dei carriaggi senza posa

e nulla torna se non forse in questi

disguidi del possibile. […]55-58

La formula "questi / disguidi del possibile"57-58 fornisce qualcosa di simile ad una perifrasi di Le occasioni, intese nel senso stabilito, ma presenta anche una ricompensa modesta, suscettibile di facilitare l'accettazione del carattere irreversibile del tempo. Benché la felicità passata di Gerti rimanga irrepetibile, l'idea di un disguido nell'abituale susseguirsi del tempo rinchiude in sé anche la promessa di una felicità futura. Premessa essenziale del riconoscimento di questi disguidi suggeriti dall'io lirico sarà però una attenzione sottile rivolta al mondo reale e non più alle fabbricazioni evasionistiche dell'immaginazione. In questo senso l'ironia della poesia risulta dal fatto che Gerti, nel suo desiderio accanito di rivivere il passato, ignora la presenza di una nuova 'occasione' che invece si presenta già nella prima strofa:

 

Se la ruota s'impiglia nel groviglio

delle stelle filanti ed il cavallo

s'impenna tra la calca, se ti nevica

sui capelli e le mani un lungo brivido

d'iridi trascorrenti o alzano i bimbi          

le flebili ocarine che salutano

il tuo viaggio ed i lievi echi si sfaldano

giù dal ponte sul fiume,

se si sfolla la strada e ti conduce

in un mondo soffiato entro una tremula 

bolla d'aria e di luce dove il sole

saluta la tua grazia – hai ritrovato

forse la strada che tentò un istante

il piombo fuso a mezzanotte quando

finì l'anno tranquillo senza spari.1-15

La ruota che "s'impiglia nel groviglio / delle stelle filanti"1-2 suggerisce già all'inizio uno iato nella consueta routine temporale, ma il saluto del sole rivolto a Gerti resta (quasi tragicamente) irricambiato.

3. Angelologia laica: le donne alate

L'apparizione delle celebri "donne alate” nella poesia di Montale è indissociabile dall'emergenza dell''occasione' quale paradigma creativo e poetologico. Benché il manifestarsi improvviso di queste particolari presenze femminili nelle poesie individuali corrisponda allo schema temporale dell''occasione' che si spinge da un dettaglio contingente nell'esperienza vissuta, almeno un paio di caratteristiche divergenti rendono indispensabile la distinzione dei due fenomeni. L'apparizione della donna alata traduce una dinamica d'amore tra l'io lirico e la donna attesa o ricordata, ma raramente presente, e inoltre tesse legami intertestuali manifesti con la più antica poesia italiana, risalendo fino al Dante della Vita nova.[10] Mediante questa ripresa della donna angelicata, Montale chiarisce dunque la sua difficile posizione all'interno della tradizione – in cui si riuniscono continuità e rottura. La formulazione più energica di questa rinegoziazione della propria funzione individuale in seno alla tradizione poetica si trova nella breve poesia Ti libero la fronte dai ghiaccioli…:

 

Ti libero la fronte dai ghiaccioli

che raccogliesti traversando l'alte

nebulose; hai le penne lacerate

dai cicloni, ti desti a soprassalti.

 

Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo 

l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole

freddoloso; e l'altre ombre che scantonano

nel vicolo non sanno che sei qui.1-8

Nonostante la sua discendenza eterea, la "donna caduta” s'avvicina qui alla condizione vulnerabile dei mortali con cui condivide l'incapacità d'inoltrarsi troppo negli spazi vuoti del cosmo senza subirne i danni. In raffronto con il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare della Vita nova, dove l'effetto salvifico di Beatrice è un bene pubblico condiviso da tutti gli spettatori, colpisce il carattere assolutamente privato della presenza femminile nella poesia di Montale, ignorata da "l'altre ombre"7, così come l'inversione dell'azione terapeutica. Non è più la donna a guarire l'uomo, ma l'io lirico ad assistere la donna, precipitata a causa di un'azione smisurata.

Nella sezione intitolata Mottetti di Le occasioni s'istituisce un dialogo complesso tra la poesia montaliana e la tradizione stilnovistica in cui l'esperienza biografica, cioè la vicenda amorosa, cifrata da senhals cangianti come Volpe, Clizia o Mosca, è sistematicamente intrecciata ad una profonda riflessione sul fatto che la donna angelicata o disangelicata sia sempre anche una donna-poesia, raggiungendo in tal senso una dimensione sovraindividuale. La ripresa di elementi centrali dello stilnovismo però non si contenta di seguire unicamente la via del bathos e della decostruzione. È proprio la natura oltremondana della donna alata, benché il termine 'oltremondano' in questo caso sia difficile da precisare, che permette a una carica eccezionale di speranza storica di associarsi al nome di Clizia in La primavera hitleriana. In questa poesia, in cui si afferma un umanismo montaliano non più costretto all'ambito privato, la posizione extraterritoriale di Clizia e la sua apparizione improvvisa irrompono nell'assolutezza apparente delle catastrofi storiche che la circondano, cioè del fascismo, del nazismo, della guerra e della persecuzione e dello sterminio degli ebrei, nutrendo così il senso per un futuro (tuttavia storico e temporale) dopo l'apocalisse:[11]

 

[…] Guarda ancora

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

che il non mutato amor mutata serbi,

fino a che il cieco sole che in te porti       

si abbàcini nell'Altro e si distrugga

in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi

che salutano i mostri nella sera

della loro tregenda, si confondono già

col suono slegato dal cielo, scende, vince –           

col respiro di un'alba che domani per tutti

si riaffacci, bianca ma senz'ali

di raccapriccio, ai greti arsi del sud…33-43

L'apertura esplicita della poesia montaliana al mondo storico, che già Pasolini osservò nel suo commento di La bufera e altro[12], risulta però essere – verrebbe da dire, quasi paradossalmente – una rete intertestuale complessa che rimonta, attraverso l'epigrafe costituita da un verso apocrifo del giovane Dante, fino alle Metamorfosi di Ovidio. Il mito di Clizia, nell'attualizzazione che ne propone Montale, si trasforma così in mito millenario della poesia stessa.

L'emergere di Clizia segna in qualche modo il culmine nell'angelologia laica di Montale. Già in Satura le donne alate soffrono inversioni drastiche e ironiche e si riducono, per esempio in L'angelo nero, al formato di un "miniangelo / spazzacamino"37-38.[13] Da Satura in poi le riprese della donna alata non servono più a stabilire un legame intertestuale con la tradizione stilnovistica, ma cifrano piuttosto una revisione critica della poesia del 'primo' Montale attraverso l'ottica pessimista e disillusa del 'secondo'. Quella che si stabilisce progressivamente a quest'altezza è una conversazione teorico-speculativa del poeta con se stesso. Malgrado le deformazioni successive della propria creatività poetica di partenza, ci sono tratti costitutivi del paradigma iniziale che sopravvivono anche nella stagione per così dire "ironica”. Così, per esempio, viene attribuito a Mosca, soprannome della moglie defunta, Drusilla Tanzi, un "radar di pipistrello"[14], cioè un dettaglio ironico, a discapito del potere sovrumano che viene comunque riconosciuto alla donna, e in aggiunta a quello che si configura come un ultimo residuo angelico: le ali.

4. L'attrito dei segni: il mondo dei discorsi

L'epoca poetica del "secondo" Montale viene generalmente intesa come un periodo di creatività minore in cui l'importanza attribuita alla propria poesia, ma alle volte anche la sua qualità, diminuiscono sensibilmente.[15] Ciò nondimeno nel periodo 'postmoderno' di Montale osserviamo anche l'esplorazione di una nuova forma d'ispirazione creativa: il mondo dei discorsi. Meno rivolto al mondo esterno concreto ovvero all'esperienza amorosa individuale, questo tipo d'ispirazione pare piuttosto trarre origine dal materiale linguistico che circola attraverso i discorsi sociali e scientifici che segnano l'attualità. È un procedimento in cui i termini astratti, in voga nelle discussioni contemporanee, vengono individuati e ironizzati per poi suggerire la loro vacuità di puro flatus vocis. La poesia Gerarchie di Satura, riprendendo già nel suo titolo una parola chiave degli anni attorno al 1968, fornisce un esempio emblematico di quella ”creatività linguistica di secondo grado” propria al periodo in questione:

 

La polis è più importante delle sue parti.

La parte è più importante d'ogni sua parte.

Il predicato lo è più del predicante

e l'arrestato lo è meno dell'arrestante.

 

Il tempo s'infutura nel totale,

il totale è il cascame del totalizzante,

l'avvento è l'improbabile nell'avvenibile,

il pulsante una pulce nel pulsabile. 1-8

Nella sua voluta monotonia ritmica questa poesia ridicolizza un certo gergo dialettico tipico dell'epoca, vuotando la sua semantica per far trasparire un gioco puramente formale di categorie grammaticali, cioè un'alternanza noiosa di participi passati (predicato, arrestato) e participi presenti (predicante, arrestante, totalizzante, pulsante). La promessa rivoluzionaria di tanti discorsi straniati si vede qui ridotta ad un dinamismo puramente intralinguistico, una specie d'incesto del linguaggio con se stesso, sottolineato dalla battuta finale e la pseudo-etimologia pulsante-pulce-pulsabile.

Si tratta, una volta di più, di una forma d'ispirazione duplice e ambigua. Benché nella maggior parte dei casi la ripresa dei "gerghi flottanti” si compia in modo ironico, ci sono momenti in cui elementi di quei discorsi si mostrano capaci d'indicare almeno un'assenza fondamentale nella pretesa autoreferenzialità del linguaggio. Basti pensare a L'hapax (1976), un componimento che sin dal titolo introduce un termine tecnico desunto dalla linguistica (termine che allude in primo luogo al pensiero strutturalista), come a voler marcare un desiderio inappagato, nel marasma idiosincratico del quotidiano:

 

È scomparso l'hapax

l'unico esemplare di qualcosa

che si suppone esistesse al mondo.

Si evita di parlarne, qualcuno minimizza

l'evento, l'inevento. Altri sono aux abois  

ma la costernazione è prevalente.

Fosse stato un uccello, un cane o almeno un uomo

allo stato selvatico. Ma si sa

solo che non c'è più e non può rifarsi.1-9 (Montale, 2007, 872)

Il termine filologico hapax legomenon, volto a designare una parola attestata solo una singola volta in un corpus testuale, è qui utilizzato per esporre l'assenza di ogni "hapacità”, cioè di qualsiasi singolarità nella realtà contemporanea. L'hapax, applicato al reale, diventa così un concetto paradossale perché il suo referente è ormai introvabile in un mondo di riproduzione fotografica e di produzione massificata dei beni di consumo, rispecchiato nel linguaggio prefabbricato e tipizzato dei discorsi.[16] Nella negazione amara di qualsiasi singolarità espressa nei versi citati riecheggia anche la palinodia di un'intuizione centrale per la poesia montaliana che va dagli Ossi di seppia alla Bufera: quella tematizzata dalla "maglia rotta" (I limoni) nel mondo deterministico della causalità o di una fessura improvvisa, un "disguido" (Carnevale di Gerti) nel flusso uniforme del tempo cronometrico. Queste immagini, infatti, sono tutte rappresentazioni icastiche di singolarità significative (e, fino ad un certo punto, plausibili).

Conclusione

Per un poeta che soleva dire di se stesso "non so inventare nulla" (Montale 1996, 1499), l'opera di Montale dimostra invece una creatività e una varietà di mezzi e di stili che gli procurano una posizione singolare nel panorama della poesia italiana del Novecento. Non esiste altro poeta italiano che abbia esteso con vigore paragonabile il campo del dicibile nella poesia, fatto peraltro corroborato statisticamente da Pier Vincenzo Mengaldo, secondo cui Montale è "il poeta che usa il lessico più ricco e di massima apertura angolare" (Mengaldo, 1994, 224). Comunque questo rifiuto dell'invenzione pura in cui possiamo ascoltare un'eco della critica goetheiana di una poesia "campata in aria" non è altra cosa che il distinguo di una creatività cauta, diffidente, sempre attenta a non staccarsi troppo dal concreto, dal vissuto, dal "vero" (Montale 1996, 1499). È proprio questa intenzione tenace di mantenere una frizione profonda tra poesia e realtà che disegna una linea di continuità dal primo al secondo Montale. Il paesaggio, l'occasione, le donne alate, perfino i frammenti dei discorsi che circolano nella società costituiscono altrettanti modi creativi per affrontare il reale, benché lo stato ontologico di quest'ultimo abbia subito cambiamenti sostanziali tra l'epoca de La bufera e altro e quella di Satura. Mentre il primo Montale parte ancora da un'intuizione più o meno fenomenologica del reale e si concentra dunque sulla traduzione sempre difficile, sempre inevitabilmente approssimativa del concreto in segni linguistici, il mondo a cui fa riferimento il secondo si presenta piuttosto come un groviglio di testi e discorsi, dove la componente ribelle ed eventualmente prelinguistica dei segni è diventata quasi impercettibile. L'ultima svolta dell'anguilla, dell'"anima verde che cerca / vita là dove solo / morde l'arsura e la desolazione" (Montale 2007, 262), ci mena quindi in un territorio dove le condizioni di sopravvivenza poetica, cioè di un "devenir-autre de la langue" (Deleuze 1993, 15) sono più che mai rarefatte.

 

 

How to cite | Come citare: Strohmaier, Paul (2020), "Le flessioni dell'anguilla: la creatività di Montale in quattro paradigmi." In lettere aperte vol. 7, pp. 25-38. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-72020/436]

 

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Immagine in copertina: Ernesto Parmeggiani, Orfeo sul monte Radope, 1902; Copyright: Archivio fotografico del Museo Civico di Modena, CC BY-SA 3.0. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ernesto_Parmeggiani,_Orfeo_sul_monte_Radope,_olio_su_tela,_1902.TI