Un'introduzione alla poesia di Primo Levi
L'articolo è un'introduzione complessiva alla poesia di Primo Levi dal 1945 al 1987. Nella prima parte, si propone di studiare la poesia di Levi come produzione autonoma rispetto alla prosa e di seguirne l'evoluzione pluridecennale, tenendo conto delle circostanze dietro la composizione delle singole poesie e analizzando temi, linguaggi e contraddizioni della poetica di Levi. Dopo alcune considerazioni dedicate alla datazione controversa di alcuni componimenti negli anni Settanta, si propone di distinguere la scrittura in versi di Levi in due segmenti temporali: dal 1945 al 1975 (anno di pubblicazione dell'Osteria di Brema) e dal 1978 al 1987. Si presenta poi un'analisi delle modalità di citazione e traduzione nei versi. Chiude l'articolo un percorso tematico su un argomento che attraversa tutta l'opera in versi: la storia del rapporto con Auschwitz. |
The essay is an overall introduction to Primo Levi's poetry (1945-1987). In the first part, it is proposed to study Levi's poetry as an independent work of art, yet taking into account the writing process of each poem and exploring subjects, forms of expressions and contradictions in Levi's poetics. After some remarks about the controversial dating of some poems in 1970s, it is proposed to separate Levi's poetry into two time periods: from 1945 to 1975 (release date of the book L'osteria di Brema) and from 1978 to 1987. The essay contains a close reading of the peculiar modes of quoting and translating in Levi's poetry. A thematic itinerary about one of the strongest issues in Levi's poetry across four decades (his evolving relation with the lager experience) concludes the article. |
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Darkness
above all things
the Sun
makes
rise
(Geoffrey Hill, A Prayer to the Sun, 1968)
1. Levi poeta: storia di un fraintendimento
Levi è stato un testimone, narratore, saggista, divulgatore scientifico e traduttore: e insieme, per tutta la sua vita adulta, un poeta. Se si esclude la giovanile Crescenzago datata al febbraio 1943[1], ha iniziato poco dopo il suo ritorno da Auschwitz, scrivendo nel dicembre 1945 la poesia Buna. Da lì, ha scritto ventisette poesie fino alla pubblicazione della silloge L'osteria di Brema (uscita per le edizioni "All'insegna del pesce d'oro" di Vanni Scheiwiller nel 1975, e anticipata soltanto da una plaquette non venale del 1970, circolata fra amici e parenti). Da questo libro ha escluso una poesia dedicata alla moglie (11 febbraio 1946) che viene reintegrata nella seconda raccolta in versi di Levi, intitolata Ad ora incerta e uscita per Garzanti nel 1984. Vi sono inserite, oltre alle poesie edite nell'Osteria di Brema (che non aveva avuto alcun successo alla pubblicazione, con grande dispiacere di Levi) trentaquattro nuove poesie, in larga parte già pubblicate su quotidiani ("La Stampa" per lo più) e riviste, più dieci traduzioni libere da Heine e da un anonimo scozzese del Seicento. Dopo la morte di Levi, sono state raccolte e pubblicate altre venti poesie, in larga parte già edite sulla "Stampa", che si trovano già nel secondo volume delle Opere (Einaudi, 1988) col titolo Altre poesie, e poi sono state pubblicate nelle edizioni delle Opere complete a cura di Marco Belpoliti col titolo descrittivo e non autoriale Altri versi (due volumi per Einaudi, 1997; poi ristampate e ampliate in tre volumi nel biennio 2016-2018)[2].
Della sua produzione poetica si leggono, solitamente, due testi celebri, Shemà e Alzarsi, messi rispettivamente a epigrafe dei suoi primi due lavori lunghi in prosa Se questo è un uomo (1947, poi ristampato da Einaudi nel 1958) e La tregua (1963); pochi altri che alludono all'esperienza concentrazionaria; le poesie più accessibili e comunicative degli anni Settanta e Ottanta sugli animali, le piante, i personaggi storici (come Huayna Capac, Agave, L'elefante, Aracne). Ciò che sembra ancora mancare è un'interpretazione della poesia di Levi come sistema espressivo coerente e stratificato che analizzi complessivamente una produzione piuttosto scarna, ma mai interrotta: ottantadue poesie, escluse le traduzioni, in più di quarant'anni, con distanze anche lunghe fra un testo e l'altro (caso estremo: fra Il canto del corvo (II) del 1953 e la successiva Erano cento del 1959 passano sei anni).
È pur vero che la poesia di Levi, di solito apprezzata dai lettori comuni proprio per la sua facilità apparente, non ha inizialmente colpito gli specialisti italiani della poesia contemporanea, pur con qualche eccezione illustre negli anni Ottanta (Raboni, Fortini, Segre). La generale indifferenza su Levi poeta, parallela a quella per Levi scrittore in toto (che durò almeno fino ai primi anni Ottanta in Italia e all'estero e termina con il successo della traduzione inglese del Sistema periodico per Schocken Books del 1984) è stata attenuata dalle letture notevoli compiute in Italia in anni recenti da Acocella (2009), Febbraro (2011), Zinato (2015) (per fare solo alcuni nomi in una bibliografia ormai impossibile da padroneggiare per intero), che hanno rivelato, attraverso campionature e approcci divergenti, i risvolti meno decifrabili in una poesia che non inviterebbe ad approfondimenti mirati, letterale e disarmante come appare.
Un fraintendimento comune nasce dalla poesia di Levi come un blocco unico, in cui gli stessi temi, linguaggi e modi d'espressione tornerebbero invariati nel giro di quarant'anni. Chiunque troverebbe assurdo considerare il Montale degli Ossi di seppia (1925) uguale a quello di Satura (1971), o valutare allo stesso modo Sirio (1929) e Viaggio d'inverno (1971) di Attilio Bertolucci. Per Levi, mi sembra, si tende a essere più sbrigativi. L'equivoco interpretativo (leggere con le stesse lenti critiche poesie lontane decenni fra loro) è agevolato dal fatto che solitamente leggiamo Levi poeta dal volume Ad ora incerta, che racchiude tutta la sua produzione poetica fino al 1984. Senza volerlo, nel lettore finisce per realizzarsi un accorciamento prospettico che non gli fa tenere conto delle diversissime circostanze biografiche e letterarie in cui si trovava la persona che ha scritto, poniamo, Il tramonto di Fòssoli (7 febbraio 1946), Huayna Capac (8 dicembre 1978) e Un topo (15 gennaio 1983). Pure, le differenze sono sostanziali: è proprio Levi che ci invita a individuarle nel momento in cui data tutte le sue poesie. Come ha notato Marco Belpoliti nelle Note ai testi di Ad ora incerta, è "un elemento molto importante dettato da un desiderio di precisione, ma soprattutto dalla volontà di imprimere uno stigma temporale al suo lavoro poetico, di legarlo a eventi della propria storia" (II, 1816).
Ogni poesia di Levi reca in calce un'indicazione del tempo in cui è stata composta (per le poesie fino al 1975, di cui ben poche escono in prima versione sulla carta stampata) o pubblicata (per le poesie dopo il 1975, che escono quasi tutte in una prima versione sui giornali). Un gesto simile accomuna due evidenze che molto di rado convivono: il legame velato fra l'autobiografia e la produzione poetica, in particolare quella fino agli anni Settanta (cf. Rosato 1997), inscindibile dal racconto del ritorno difficoltoso a una vita normale dopo Auschwitz; il manifestarsi saltuario di un'ispirazione discontinua e diseguale, anche se mai interrotta (dal 1978 in poi, quando le poesie di Levi iniziano a comparire regolarmente sui giornali, l'occasione prevale spesso sugli accenti personali). Lo stessi Levi insiste sull'aspetto episodico della sua poesia nella prefazione a Ad ora incerta, nascondendo l'inaffidabilità delle date.
Almeno in un caso, infatti, Levi ha spostato la data di composizione dei suoi versi. Nel carteggio fra Levi e Vanni Scheiwiller che precede la pubblicazione dell'Osteria di Brema (conservato al Centro Apice di Milano)[3], Levi invia, oltre alle ventitre poesie della plaquette del 1970 (da Crescenzago a Lilít), altre quattro poesie: Nel principio, Via Cigna, Le stelle nere e Congedo. Nella nota in calce a Le stelle nere in Ad ora incerta, Levi rimanda a un articolo uscito su "Scientific American" del dicembre 1974[4], ma la poesia è datata al 30 novembre 1974. Nel carteggio con Scheiwiller Levi precisa che Le stelle nere è successiva a Congedo, la poesia che appunto chiude L'osteria di Brema ed è datata 28 dicembre 1974, ma ha scelto di retrocedere Le stelle nere per far restare Congedo l'ultima poesia della raccolta, permettendo allo studioso di farsi una domanda capziosa, ma non inutile: perché Levi non ha retrodatato la poesia a un giorno qualsiasi del mese di dicembre prima del 28, cosa che gli avrebbe permesso di non cadere in contraddizione? Voleva farci notare l'incongruenza e sottolineare che il suo piccolo canzoniere non va preso per una tranche de vie o un taccuino sentimentale, ma obbedisce alle esigenze architettoniche di un libro di poesia vero e proprio (mentre la plaquette non aveva i segni di tanta accuratezza)? Benché l’ipotesi dell’errore nella data delle Stelle nere risulti tutto sommato plausibile e più economica, a partire dall'incongruenza si può ampliare il ragionamento: se Levi, almeno in un caso di cui abbiamo prova, sposta le date a suo arbitrio, ne consegue che esse non sono da prendere per oro colato e sono sottomesse a un debole ma pur esistente principio architettonico complessivo. Levi pensa le sue poesie come componenti di un libro, dotato di una struttura e di una progressione interne. Nulla vieta, in linea di principio, di pensare che tante altre date in Ad ora incerta non coincidano con l'effettivo momento di composizione delle liriche.
Chiusa questa parentesi, la mia proposta teorica, tenendo conto degli studi critici che mi hanno preceduto, riguarda soprattutto la storicizzazione della poesia di Levi e la necessità di creare dei presupposti per una sua lettura integrale. Bisognerebbe considerare almeno di alcuni principii complessivi e dei dati fondamentali della storia editoriale dell'autore, in modo da orientarsi nella sua produzione dividendola in due tempi ben distinti:
1) Primo tempo: dagli esordi alla pubblicazione dell'Osteria di Brema (1945-1975)
2) Secondo tempo: dal 1975 al 1987 (con in mezzo la pubblicazione per Garzanti di Ad ora incerta, 1984).
La divisione è per forza di cose sommaria. Isoliamo il primo tempo: fra le poesie "concise e sanguinose" (come vengono definite in Il sistema periodico) che vanno dal dicembre 1945 (Buna) all'agosto 1953 (Il canto del corvo (II)), e le poesie dal 1959 (Erano cento) al 1974 (Le stelle nere e Congedo), passano moltissime differenze causate, prima che dall'evoluzione dello stile, dal cambiamento di contesto. Né potrebbe essere diversamente: le poesie fino ad Avigliana (datata 28 giugno 1946) risentono della vicinanza temporale all'esperienza del lager e delle difficilissime circostanze personali in cui Levi si trovava a vivere (il capitolo Cromo in Il sistema periodico è a questo riguardo una guida essenziale per spiegare Levi con Levi: non mi pare casuale che Levi insista con Scheiwiller per far uscire L'osteria di Brema, pieno di spunti oscuri in mancanza di chiarimenti autobiografici, pochissimo tempo dopo Il sistema periodico). Non raramente le poesie nascono a grappoli, da un'occasione storica (Per Adolf Eichmann e L'ultima epifania, rispettivamente datate 20 luglio e 20 novembre 1960, seguono da vicino la notizia della cattura di Eichmann da parte del Mossad, vicino Buenos Aires, l'11 maggio 1960) o da una lettura (il filone astronomico di tre poesie, ispirato dalla già detta lettura della rivista "Scientific American"), offrendo al lettore alcune brevi sequenze di poesie, compatte per temi e ispirazione. A complicare il quadro, come già accennato, periodi di (relativamente) grande prolificità si alternano ad anni di silenzio.
Per il secondo tempo, in cui comunque, rispetto al primo, la produzione poetica appare più abbondante e più omogenea nel suo essere divulgativa e d'occasione (con poche significative eccezioni che verificherò nel corso di questo breve scritto), si può fare un discorso simile. A dire il vero la data di partenza che ho indicato, il 1975, è puramente funzionale alla divisione schematica: andrebbe spostata al 23 maggio 1978, data della comparsa su "La Stampa" di Plinio (a sua volta primo elemento di un micro-filone storico che include La bambina di Pompei e Huayna Capac).
In questo insieme eterogeneo, è possibile individuare una serie precisa di temi biografici (l'esperienza in lager, il bisogno di trovare una compagna e uno scopo una volta tornato dalla guerra, l'immobilità e l'arrivo della vecchiaia), iconografie (le scoperte astronomiche degli anni Settanta, la zoologia, la botanica), personaggi (pescati dalla storia recente, dalla tradizione scientifico-letteraria italiana, dalla Bibbia) e linguaggi (l'apostrofe, il discorso camuffato in prima persona, l'ammonimento etico ai lettori). Impossibile descriverli tutti qui: servirebbe una storia completa della poesia di Levi in cui, all'interno dei due tempi, si possano catalogare spunti e occasioni secondo l'auspicio formulato da Fortini, uno dei primi critici della poesia di Levi[5]. Mi limito a individuare un filone, quello autobiografico della percezione dell'esperienza in lager attraverso i decenni, percorrendo in parallelo una cronologia dagli esordi alla composizione dei Sommersi e i salvati. Prima di cominciare, trovo però utile sciogliere l'equivoco della chiarezza, inscindibile dal carattere di inattualità di solito attribuito (non in senso positivo) all'opera in versi di Levi.
Le poesie di Levi danno a chiunque abbia qualche nozione di poesia moderna un curioso senso di anacronismo: non somigliano a nessuna corrente della poesia italiana dagli anni Quaranta agli anni Ottanta (neanche a quelle con cui in apparenza ha più contatti, come la poesia neorealista). Il motivo è che sono semplici, estremamente comunicative, a volte apertamente didascaliche, e il più delle volte appaiono, per il gusto di un lettore moderno abituato all'idea della poesia come linguaggio dell'oscurità, dell'iper-densità semantica, dell'inconsapevolezza (secondo il senso comune del genere, il poeta è parlato e spesso non sa ciò che scrive), piuttosto piatte e malriuscite. Levi stesso, nella nota che apre Ad ora incerta, dichiara la sua sostanziale estraneità alla poesia contemporanea: "conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell'arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti"[6]. Eppure, se la poesia di Levi è parzialmente anacronistica, non per questo è priva di una sua densità di significato, di motivi d'interesse per specialisti della poesia contemporanea, estimatori di Levi in prosa e lettori comuni. Per capirlo, bisogna fare alcune precisazioni storiche, sempre tenendo presente che Levi è un poeta pre-moderno nella lingua e nello stile: non c'è una disparità evidente fra ciò che il poeta comunica e ciò che si limita a evocare o richiamare indirettamente. Come Levi precisa nel cappello introduttivo a Fuga di morte, non a caso parlando di poesia, "scrivere è un trasmettere" (II, 211)[7] e bisogna rendere il più chiaro possibile il messaggio che si vuole consegnare ai lettori: a noi il compito di individuare le molte ombre che, inevitabilmente, una luce tanto forte crea[8].
2. Il primo tempo: 1945-1975
Nel primo tempo, la poesia di Levi è un'attività sporadica e ristretta, coerente con l'esiguità della produzione in prosa fino alla fine degli anni Cinquanta: poche poesie, non d'occasione e pubblicate quasi solo in volume. Risente dell'esperienza in lager e del faticoso tentativo di tornare alla vita di tutti i giorni, di trovare un lavoro e una compagna per la vita: alcune poesie parlano in modo cifrato dell'amore con la moglie Lucia Morpurgo, a cui Ad ora incerta è dedicato (un fatto unico: nelle opere di Levi non compaiono dediche). È insomma una poesia fortemente autobiografica e, viste le circostanze della vita di Levi nell'immediato dopoguerra, anche tragica. Mancano i tratti comici, i passaggi divulgativi, i pacati discorsi in maschera e d'occasione che affollano il secondo tempo della poesia di Levi. Negli ultimi dieci anni di vita Levi descrive animali, piante e personaggi storici con le tecniche dell'immedesimazione, dell'antropomorfizzazione e della descrizione "da vicino", in modi non distanti da certi articoli dell'Altrui mestiere (La giraffa dello zoo, Il gabbiano di Chivasso) scrive poesie basate su giochi linguistici (Il primo atlante), riflette sul proprio lavoro (Un mestiere, L'opera, Alla musa) racconta episodi dalla scienza e dalla Bibbia in un meccanismo d'intrattenimento intelligente e limitato (Casa Galvani, Sansone, Dalila), insomma scrive con una limpidezza che sfocia naturalmente nel passatempo pedagogico; nell'immediato dopoguerra non c'era ancora nulla, o quasi, di tutto ciò.
Fra il 1945 e il 1975 Levi parla quasi sempre in prima persona, senza troppi distanziamenti, in una prospettiva così personale da risultare talvolta oscura non per densità di linguaggio e complessità di stile, ma per mancanza di esplicitazione dei riferimenti e dei dati di realtà. In 25 febbraio 1944 non ci sono riferimenti alla destinataria (Vanda Maestro, compagna durante la lotta partigiana e la prigionia nel campo italiano di Fòssoli, mai più tornata da Birkenau) ed è difficile capire le implicazioni biografiche della desolazione espressa da Levi. Le biografie di Carole Angier (The Double Bond. Primo Levi. A Biography) e Ian Thomson (Primo Levi: A Life)[9] aiutano a metterla a fuoco e infatti a tutt'oggi sono ancora i testi critici che più diffusamente affrontano la poesia di Levi – benché i risultati non siano sempre esaltanti nel loro ricondurre a una corrispondenza uno-a-uno poesie e momenti della biografia (soprattutto Angier. Proviamo a prendere la poesia più celebre di Levi, quella che, siamo abituati a pensare, non ha bisogno di presentazioni o commenti:
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi. (II, 685)
È difficile rendersene conto per via del legame ormai insolubile con Se questo è un uomo e il discorso sui campi nazisti, ma in Shemà non c'è un solo riferimento concreto ad Auschwitz: non c'è nulla, se consideriamo per assurdo un lettore completamente ignaro della scrittura di Levi, che ci rimandi al lager. Auschwitz è l'atmosfera in cui i personaggi sono immersi, troppo vicina per essere messa a fuoco: è il retroterra di una, secondo le parole di Levi, "interpretazione blasfema di una preghiera yiddish" (III, 298) che volutamente rovescia la forma originaria del salmo. Questo infatti era il titolo della lirica alla sua prima pubblicazione nel settimanale "L'amico del popolo", il 31 maggio 1947, assieme al quinto capitolo conclusivo di Se questo è un uomo (cf. Scarpa 2016). È una maledizione biblica indirizzata a tutti coloro che non hanno vissuto quell'esperienza (in primo luogo i tedeschi; cf. Mengoni [2017], 415-495), volta a sottolineare l'obbligo morale dell'ascolto, senza il quale non ci si può definire esseri umani. Del resto, a dare credito a una valutazione molto successiva, in un'intervista televisiva del 1984 con Lùcia Borgia, Levi dice chiaramente che il titolo Se questo è un uomo, desunto da un verso della poesia, "allude non soltanto al prigioniero, ma anche al suo custode" (III, 537).
Anche quando Levi fa parlare gli animali nelle poesie dell'Osteria di Brema, mette il discorso fra virgolette, osservando la scena "dall'esterno", e non gioca a impersonarli secondo il procedimento consueto di mimesi animalistica in prima persona del "secondo tempo" (la prima è Aracne del 29 ottobre 1981). Nella poesia Il canto del corvo (I) (1946), Levi non si serve del corvo per descriverne con tono scientifico i comportamenti, ma lo usa come allegoria maligna e, grazie all'uso delle virgolette e del discorso diretto, ci fa capire che non lo sta impersonando. Anche questa poesia, in apparenza un esercizio mimetico, è radicata in una prima persona che combacia con l'autore ed è distinta dall'animale. Il corvo è un avversario: è stato letto come allegoria della depressione di cui Levi soffrì a lungo e l'ipotesi sembra convincente, se constatiamo che l'unica altra poesia "in due tempi" di Levi, Scacchi (I e II), parla allo stesso modo di un nemico oscuro e invincibile (un avversario a scacchi, appunto), che non si riesce a sconfiggere.
"Sono venuto di molto lontano
Per portare mala novella.
Ho superato la montagna,
Ho forato la nuvola bassa
[…]
Per portarti la nuova trista
Che ti tolga la gioia del sonno,
Che ti corrompa il pane e il vino,
Che ti sieda ogni sera nel cuore".
Così cantava turpe danzando
Di là dal vetro, sopra la neve.
Come tacque, guardo maligno,
Segnò col becco il suolo in croce
E tese aperte le ali nere. (II, 684, vv. 1-4, 14-18)
La trasformazione dello stile di Levi, da tragico ed esclusivo a comico e d'occasione, può sorprendere meno se consideriamo che, a partire da Plinio (23 maggio 1978: a tre anni dall'uscita dell'Osteria di Brema) le sue poesie compaiono regolarmente sui giornali prima di finire raccolte nel volume, e non sporadicamente, com'era stato per Shemà (Salmo in rivista) e Buna (comparsa col primo titolo esplicativo di Buna lager in "L'amico del popolo", 26, 22 giugno 1946, con piccole differenze nell'impaginazione delle strofe)[10]. Anche per questo motivo la sua produzione diventa plurale, disordinata, molto meno legata alla disperazione autobiografica della poesia fino al 1975. Nei versi fino agli anni Settanta, invece, ricorrono toni cupi, figure e paesaggi senza colori (l'immagine del sole che tramonta, a indicare la fine della speranza, dell'amore, della vita, è ricorrente), incubi e spezzoni brucianti sull'esperienza in presa diretta del lager.
Quando si riferisce ad Auschwitz Levi non parla quasi mai al passato, come se quell'esperienza non volesse allontanarsi del tutto. In un caso adotta, con una scelta unica in tutta la sua opera, tonalità allucinatorie per descrivere una situazione di estremo realismo. Sto parlando di Buna, la prima poesia a essere composta, in una data in cui Levi è già tornato a Torino – se, naturalmente, scegliamo di dare pieno credito alla datazione apposta da Levi nel volume L'osteria di Brema, che è precedente di sei mesi alla data d'uscita della prima versione nel settimanale "L'amico del popolo". Il "clivaggio memoriale"[11] di cui si è parlato per Se questo è un uomo, vale a dire la prospettiva sfasata dall'oscillazione fra il presente narrativo del lager e il presente "di pace" successivo, da cui il narratore racconta, è lampante già qui. L'atmosfera è volutamente deformata, come testimonia il messaggio infernale e solenne propagato dalle sirene:
Piedi piagati e terra maledetta,
Lunga la schiera nei grigi mattini.
Fuma la Buna dai mille camini,
Un giorno come ogni giorno ci aspetta.
Terribili nell'alba le sirene:
"Voi moltitudini dai visi spenti,
Sull'orrore monotono del fango
È nato un altro giorno di dolore".
Compagno stanco ti vedo nel cuore,
Ti leggo gli occhi compagno dolente.
Hai dentro il petto freddo fame niente
Hai rotto dentro l'ultimo valore.
Compagno grigio fosti un uomo forte,
Una donna ti camminava al fianco.
Compagno vuoto che non hai più nome,
Un deserto che non hai più pianto,
Così povero che non hai più male,
Così stanco che non hai più spavento,
Uomo spento che fosti un uomo forte:
Se ancora ci trovassimo davanti
Lassù nel dolce mondo sotto il sole,
Con quale viso ci staremmo a fronte? (II, 681)
In questa poesia compaiono in nuce alcuni dei tratti che contraddistinguono tutto il primo tempo della poesia di Levi. Appare evidente il tono autobiografico e sgomento, che fa parlare il poeta come se fosse ancora immerso ad Auschwitz, senza speranza di sopravvivere. Il verso "Se ancora ci trovassimo davanti …" è un riflesso della "risibile ipotesi" dei prigionieri (I, 46) che in Se questo è un uomo sognano in lager di scappare e tornare alle loro case. Ma il periodo ipotetico dell'irrealtà in Buna è reso più straniante dal fatto che Levi, ormai tornato alla vita civile, si esprime come se la realtà ordinaria fosse una fantasia irrealizzabile, appartenente al passato, e il lager l'unica verità tangibile (un nucleo che sarà sviluppato nell'ultima pagina di un'opera successiva: La tregua). Inoltre c'è una certa mancanza di riferimenti: a parte la denotazione della Buna, come facciamo a capire dove ci troviamo? Nella versione sul giornale, infatti, c'era un titolo illustrativo come Buna lager. La soppressione dei riferimenti va a favore di uno sfogo ricco di ripetizioni liriche ("Compagno", "Così"), disperato e piuttosto astratto. È tutta una serie di aspetti che inducono a mettere in discussione l'immagine invalsa della poesia di Levi come chiara, didascalica e comunicativa in blocco. Certamente è anche questo, ma soprattutto nel secondo tempo, e comunque non sempre: le poesie dell'Osteria di Brema invitano il lettore a ripensare il rapporto di Levi con l'oscurità, uno dei temi di più lungo corso negli studi critici su Levi. Quella a cui lo scrittore è notoriamente avverso è l'inaccessibilità gratuita e fine a se stessa del gioco verbale e del linguaggio sacerdotale, usato politicamente per relegare il lettore in una posizione d'inferiorità. Ciò non significa tuttavia che Levi propugni uno stile didascalico, o che rigetti la difficoltà espressiva in toto: ne è un esempio il confronto, suggerito da lui stesso, con il poeta di lingua tedesca Paul Celan. Almeno fino a una certa fase, in verità non c'è aperta contrapposizione fra i due poeti: anzi, Levi esprime per il primo Celan vicinanza e affinità sotterranea. In Dello scrivere oscuro, articolo pubblicato l'11 dicembre 1976 su "La Stampa", Levi parla per Fuga di morte di Celan di "cruda lucidità", con toni d'ammirazione che, invece, non riserva all'ultima sua produzione, giudicata incomprensibile:
L'oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo. (II, 842)
A sottolineare la vicinanza, nel cappello introduttivo alla stessa poesia, inclusa nell'antologia personale La ricerca delle radici del 1981, Levi aggiunge, con argomenti che usa anche per la propria poesia nella prefazione di Ad ora incerta (la necessità fisiologica; lo sfogo personale, eventualmente incomprensibile al di fuori di una cerchia ristretta; Fuga di morte portata in sé come "un innesto"):
Scrivere è un trasmettere; che dire se il messaggio è cifrato e nessuno conosce la chiave? Si può rispondere che trasmettere quel certo messaggio, e in quel modo specifico, era necessario all'autore, anche se inutile al resto del mondo. Penso che sia questo il caso di Paul Celan, poeta ebreo tedesco, sulle cui spalle si è accumulato peso su peso, dolore su dolore, fino al suo suicidio a cinquant'anni nel 1970. Sono riuscito a penetrare il senso di poche fra le sue liriche; fa eccezione questa Fuga di morte. Leggo che Celan l'ha ripudiata, non la considerava la sua poesia più tipica; non mi importa, la porto in me come un innesto. (II, 211)
Su questa linea, il linguaggio poetico del primo tempo di Levi può essere letto come una comunicazione per molti aspetti "privata": mentre riflette sui limiti della trasmissione di un dolore privato in un discorso su Celan, Levi sta commentando obliquamente il proprio modo di scrivere versi. In Congedo, la poesia che chiude L'osteria di Brema, Levi ci indica con autoironia dimessa, che i versi che abbiamo appena letto sono nebbich, cioè in yiddish "sciocchi", e anche "fatti per essere letti da cinque o sette lettori". La diminuzione non è solo un artificio retorico, come quello dei "venticinque lettori" manzoniani, ma nasconde la volontà di indicare ai lettori una corretta modalità di lettura di versi non così lineari e facili da intendere all'altezza degli anni Settanta – quando su Levi il lettore comune non aveva la relativa abbondanza di informazioni di cui oggi dispone.
Due strumenti contraddistinguono questa fase dello stile poetico di Levi, insieme alle costanti finora individuate – la peculiare oscurità, il modo tragico, la concentrazione autobiografica. Anzitutto, un ricorso importante alle citazioni letterarie, usate sempre per intensificare i toni cupi dell'insieme. I dantismi: negli ultimi versi di Buna c'è un riferimento obliquo a Dante, Inferno VI, vv. 88-90, e all'episodio del goloso Ciacco, che non serve a creare una cortina grottesca intorno all'episodio, né ha funzioni ironiche: è proprio un rinforzo tragicizzante, che esaspera per contrasto l'atmosfera "infernale" dell'ambiente (Ciacco, peccatore di gola, contro i deportati che muoiono di fame). Nei primi anni, c'è un uso frequente delle citazioni in questo senso; in 25 febbraio 1944 la destinataria è "disfatta" dalla morte, come in Inferno, III, v. 57; nel Canto del corvo (II), l'Eliot degli Hollow Men è ripreso nel verso "Non con un urto, ma con un silenzio". Se prendiamo Il tramonto di Fòssoli, è il Carme V di Catullo a essere usato in questo modo:
Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato
Ho visto il sole scendere e morire;
Ho sentito lacerarmi la carne
Le parole del vecchio poeta:
"Possono i soli cadere e tornare:
A noi, quando la breve luce è spenta,
Una notte infinita è da dormire". (II, 691)
L'immagine del sole che tramonta, presente in molte poesie (25 febbraio 1944, Approdo, Erano cento, Approdo), è una figura ricorrente di segno negativo. Solo una volta c'è per contrasto, in 11 febbraio 1946, dedicata alla moglie: "Un uomo una donna sotto il sole". È consequenziale che questa poesia, di tono celebrativo e tutta incentrata sulla necessità inesorabile della sopravvivenza ("Sono tornato perché c'eri tu"), nell'Osteria di Brema non compaia: sarebbe parsa una stonatura, contraddicendo il messaggio ctonio e sconfortato del resto della raccolta, ossessivamente presa da pochi temi, per nulla svagata. Persino poesie apparentemente divertite come Un altro lunedì (1946) lo ribadiscono: i richiami danteschi sono numerosi nell'elenco giocoso gracchiato dall'altoparlante (dalla figura di Minosse a Tanto gentile e tanto onesta pare nell'ultimo verso). Mentre concorrono a creare un'atmosfera surreale, indicano però anche un'altalena evidente fra euforia e angoscia. Il gioco dell'elenco è controbilanciato dal riferimento infernale e dal messaggio degli altoparlanti: due elementi che, nella struttura dell'Osteria di Brema, rimandano subito all'atmosfera di Buna e creano un cortocircuito notevole. La citazione, fino al 1975, è subito riconoscibile (le note di Levi, per precisare le fonti, compaiono oltre tutto solo in Ad ora incerta), spesso tipograficamente separata, solenne. Fa riferimento a un canone ristretto dai forti echi personali e funge da segnale per identificare l'innalzamento tragico e personale della voce – non a caso, in poesie pacate, malinconiche o illustrative come Avigliana e La strega non ce n'è traccia. Nel secondo tempo della poesia di Levi, sia chiaro, le citazioni ci sono ancora e in gran numero, ma s'inseriscono in operazioni più piane e scorrevoli di mash-up (Pasqua) e gioco linguistico, lasciando il posto a un linguaggio più sostenuto, espositivo, talvolta esortativo (Un mestiere), che contiene rare esclamazioni idiomatiche in yiddish (Pio) e capovolgimenti parodici solo in apparenza rimandanti al latino libresco (Un topo)[12].
Ma ogni volta la citazione esplicita da alcuni testi-chiave (Dante, Eliot, Coleridge, Catullo, Shakespeare, Villon in Nel principio), ricompare nelle poesie che rievocano, più o meno direttamente, la memoria del lager, come in Fuga, Il superstite, Schiera bruna. Quando Levi cita e fa parlare gli altri, in questi casi, il suo discorso si fa, controintuitivamente, più personale, fino a diventare insostenibile. Quasi sempre queste poesie, nell'apice del discorso, sono bipartite: nella clausola, dove si tocca di solito il picco della tensione poetica, le citazioni prendono il campo, come se Levi avesse una sua ritrosia ad alzare il tono con parole originali. Dopo tutto, non dovrebbe stupire: il capitolo più famoso e pieno di pathos di Se questo è un uomo è una (dislocata e intermittente) parafrasi con commento di versi altrui – Il canto di Ulisse.
Qualcosa di analogo, circa il paradosso di un discorso intimo per interposta persona, vale per lo strumento della traduzione, usata nell'Osteria di Brema quale strumento obliquo di una creatività originale. Levi propone traduzioni e variazioni sugli originali di alcuni autori (Rilke in Da R. M. Rilke, Heine in Approdo) scartando decisamente dalla lettera del testo, nel caso di Heine ribaltando l'originale di partenza (Die Nordsee), per veicolare messaggi slegati dalle fonti di partenza. A differenza che nelle Traduzioni di Ad ora incerta, definite "piuttosto divertimenti che opere professionali" ma tutto sommato contigue ai modelli, nel primo tempo della sua poesia Levi mischia scrittura propria e testi altrui creando innesti originali: una scelta che dopo il 1975 tornerà solo nelle poesie che rimandano alle esperienze autobiografiche della deportazione. Questo è il passo della lirica di Heine che Levi, si presume, traduce:
Felice l'uomo che ha raggiunto il porto
e ha lasciato dietro sé mari e tempeste
e adesso siede al caldo e confortevole
nella buona taverna dell'osteria di Brema.
Ah, come il mondo è affascinante e piacevole
nel riflesso di un buon bicchiere di vino!
Com'è dolce, questo microcosmo instabile
che versa il sole nel mio cuore alterato! (Heine 2003, 227s.)
Questa invece è la versione di Levi, datata al 10 settembre 1964. Gli elementi principali ritornano tutti (il sole, l'osteria di Brema, la pace, il porto raggiunto), ma vengono capovolti nel segno di una negatività estrema:
Felice l'uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all'osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l'uomo come una fiamma spenta,
Felice l'uomo come sabbia d'estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta. (II, 702)
Non richiede un grande sforzo interpretativo riconoscere in questo uomo "felice" un ritratto da fuori del Muselmann, per com'è sintetizzato in molte occasioni da Levi stesso. Prendiamo un celebre passo di Se questo è un uomo che sembra esprimere, con diverso piglio argomentativo, concetti simili a proposito di chi è stato annientato dalla prigionia in Auschwitz:
La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Musulmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla.
Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. (I, 209)
Mi sembra a margine che, in sintonia col principio di sinistra identificazione che regge L'osteria di Brema, Levi includa in Approdo anche se stesso all'interno della popolazione sommersa. La poesia di Levi rivela dunque la sua importanza perché esprime, con meno complessità ma con più forza retorica e coerenza, l'identificazione coi morti in lager e l'urgenza espressiva che muteranno nelle sequenze migliori del secondo tempo della poesia di Levi: quelle in cui si passa dalla condivisione dello stato dei sommersi alla condizione scomoda e ingiustificata di salvato; in cui all'angoscia e al radicamento in un'atmosfera di morte subentra il senso di colpa, che sorge fin dai primi anni Sessanta nelle vesti di "un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori" (così in La tregua, I, 312).
Il tramonto di Fòssoli inizia con un'affermazione che suonerebbe strana al raziocinio del Levi prosatore: "Io so cosa vuol dire non tornare". L'identificazione coi compagni non sopravvissuti è oscillante, ma mai compiuta con tale chiarezza nel coevo Se questo è un uomo. Come ha notato Maria Anna Mariani, l'equazione fra sé e i compagni morti nel libro d'esordio di Levi è proposta, ma mai portata fino in fondo:
[…] è la sua esperienza di potenziale sommerso, e l'esperienza di tutti i sommersi, di coloro che non sono tornati per raccontare, che qui prende forma. Dando voce a questo noi Levi stabilisce un'equazione tra la sua esistenza e quella dei morti compagni e ci mostra cosa voleva dire sopravvivere, disumanamente e impersonalmente, nel lager. (Mariani 2018, 38)
Per l'ultimo Levi "Io so cosa vuol dire non tornare" è un'affermazione mostruosa, inaccettabile sul piano etico e conoscitivo. I sommersi e i salvati (1986) si sviluppa nella consapevolezza paradossale che raccontare l'esperienza del lager nel modo più completo (trattando anche l'annientamento fisico e morale, che era uno degli obiettivi dell'organizzazione) è possibile solo a chi è stato annientato. Scrivere di Auschwitz è anche, all'altezza degli anni Ottanta, un compromesso da privilegiati. Levi lo rimarca in alcuni passaggi di particolare sconforto:
Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso "per conto di terzi", il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. (II, 1196)
3. Il secondo tempo: 1975-1987
Dunque la poesia di Levi, anche se può essere considerata di livello diseguale dai lettori di oggi, ha un pregio irrinunciabile: isola e sintetizza alcuni temi, permettendo di tracciarne l'evoluzione in maniera più semplice rispetto alla prosa. Fino alla fine degli anni Quaranta, Levi s'identifica parzialmente coi morti in lager, ci parla da una prospettiva che è ancora radicata, in parte, nei campi, racconta del tentativo frustrato e faticoso di tornare a una vita normale avendo vissuto pochissimo tempo prima un'esperienza traumatica, in modo diretto (Lunedì, Avigliana, Un altro lunedì) o con metafore immediate, come quando descrive un ghiacciaio che dorme sonni inquieti ed è costretto all'immobilità, occhieggiando a se stesso (Il ghiacciaio). La lontananza temporale da Auschwitz non coincide con il suo totale superamento: man mano che gli anni passano, l'identificazione si attenua, e assieme alla distanza subentra il senso di colpa per aver subìto la persecuzione ed essere sopravvissuto. È già evidente in alcuni passi della Tregua la "natura insanabile dell'offesa". A liberazione di Auschwitz appena avvenuta, l'urgenza di sopravvivere cede il passo a un sentimento più sfaccettato e velenoso:
[…] nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensar eche la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia negli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. (I, 310)
È in questo giro di anni, come ha scoperto Luzzatto, che Levi evoca per la prima volta un paragone con il Vecchio marinaio dell'omonima Ballata di Coleridge proponendo il titolo Upon a Painted Ocean per l'edizione inglese della Tregua[13]: la figura di un superstite condannato a raccontare la propria storia spettrale compare nelle pagine autobiografiche del Sistema periodico e dà il titolo a Ad ora incerta. Non è secondario che un autore superstite del lager s'identifichi con un uomo che ha condannato i suoi compagni alla morte dopo aver compiuto un crimine: è appunto il sintomo del fatto che, a circa quindici anni dal ritorno a casa, la direzione della sua scrittura sta avendo uno scarto evidente. Erano cento, datata 1° marzo 1959, descrive una situazione mutata rispetto alle poesie "concise e sanguinose" degli anni Quaranta. Dei fantasmi fissano un uomo e, a poco a poco, si stringono attorno a lui (come evidenzia l'inciso "in cerchio" del finale):
Erano cento uomini in arme.
Quando il sole sorse nel cielo,
Tutti fecero un passo avanti.
Ore passarono, senza suono:
Le loro palpebre non battevano.
Quando suonarono le campane,
Tutti mossero un passo avanti.
Così passò il giorno, e fu sera,
Ma quando fiorì in cielo la prima stella,
Tutti insieme, fecero un passo avanti.
"Indietro, via di qui, fantasmi immondi:
Ritornate alla vostra vecchia notte";
Ma nessuno rispose, e invece,
Tutti in cerchio, fecero un passo avanti. (II, 699)
Rispetto alle poesie precedenti, cambia la posizione del protagonista rispetto all'ambiente che descrive: accerchiato dagli uomini le cui palpebre "non battevano", non è più uno di loro – non ha nemmeno il diritto della prima persona. Non sappiamo nulla di lui, tranne che è accerchiato e perseguitato dai fantasmi: quindi non è un sommerso come loro, nemmeno "potenziale", ma a tutti gli effetti un salvato, che deve scontare la pena di esserlo per il resto della sua vita. Ecco tornare, assieme, i segnali del modo tragico della poesia di Levi: il sole che, tramontando, segnala l'arrivo di una dimensione ctonia e spaventosa, la dimensione cupa e gotica, almeno un'eco letteraria da riconoscere con facilità. Dietro le apparizioni non c'è Coleridge, come forse potremmo aspettarci, ma l'ombra di Macbeth: come il fantasma di Banquo, ucciso dai sicari di Macbeth perché egli mantenga il potere, i "cento" hanno lo sguardo vuoto e fisso ("Thou hast no speculation in those eyes / Which thou dost glare with!", Atto III, scena 4, vv. 95s.)[14] e non rivolgono parola al protagonista della poesia, che dal canto suo reagisce riecheggiando le parole del re di Scozia ("Hence, horrible shadow!", Atto III, scena 4, v. 106). La differenza di contesto nel riuso intertestuale è palese: "immondi" è un hapax nella poesia di Levi, e il sospetto della citazione viene subito al lettore di lungo corso, che sa che la poesia di Levi può essere composta e ordinata, ma non è praticamente mai aulica o libresca. Se ci si pensa, il paragone alluso sorprende: il protagonista anonimo di Levi, che possiamo considerare una proiezione autobiografica del sopravvissuto innocente, tormentato dal ricordo dei compagni morti, è messo in parallelo con un assassino[15]. Non mancano altri prestiti: nel primo verso di Fuga del 12 gennaio 1984 ("Roccia e sabbia e non acqua") è un'esplicita traduzione da The Waste Land di Eliot, come d'altronde indicato in nota sin dall'edizione 1984 di Ad ora incerta. Eppure Levi, lo abbiamo visto per quanto riguarda l'atto di datare le sue poesie, sa depistare il suo lettore: come non aveva indicato il re di Scozia fra le fonti di Erano cento e aveva omesso Dante dai riferimenti continui delle sue citazioni, così in Fuga non indica la chiara ascendenza macbethiana di un uomo che, lo si scopre nei versi finali con uno "svelamento" già applicato in Erano cento, si lava mani sporche di sangue, perseguitato da una minaccia oscura. La purezza inseguita in Fuga, negata da un misterioso delitto che macchia indelebilmente, non può non rievocare l'esortazione di Lady Macbeth al marito "Go get some water / And wash this filthy witness from your hand" (Atto II, scena 2, vv. 47s.), o anche della colpevolezza di Lady Macbeth nel finale della tragedia, quando cerca di lavare macchie di sangue che non vanno via, create dalla sua allucinazione (Atto V, scena 1, vv. 21-49).
Levi non gioca mai a carte scoperte col lettore: anche le sue note ai testi, come le sue traduzioni, sono più musicali che filologiche, e devono essere prese con il beneficio del dubbio riservato ai grandi scrittori che, è risaputo, non rivelano mai tutte le loro fonti. Ciò che conta è capire che quando Levi cita, anche dove omette un rimando puntuale, vuole presentare al lettore alcuni modelli letterari precisi che servono a rafforzare (o a contraddire) il messaggio esplicito delle proprie parole "non di secondo grado". Se insistiamo sull'intertestualità di Erano cento c'è d'altra parte, senza troppo forzare, un riferimento labile alla Spigolatrice di Sapri (1858) di Luigi Mercantini, un famoso canto risorgimentale che sembra qui riecheggiato soprattutto nell'incipit proverbiale ("Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti!") e nella curiosa vicinanza delle situazioni – la spigolatrice guarda morire i soldati caduti durante l'omonima spedizione, senza poter intervenire per salvarli. Quanto a lungo si potrebbe insistere nelle riprese intertestuali, senza cadere nell'errore accademico di proiettare le proprie conoscenze erudite sulle (presunte) intenzioni dell'autore studiato?
Nella migliore poesia di Levi convivono due certezze contrastanti, una di superficie e una nascosta: il personaggio autobiografico è innocente (perché è sopravvissuto ed è stato vittima, non carnefice), ma in una dimensione profonda e notturna sa di essere colpevole (citazioni, atmosfere e parallelismi dicono che è lui ad aver causato quelle morti). Non è un caso che in Il superstite (1984), una delle poesie più note del secondo tempo, la struttura bipartita (terza persona nella prima metà, discorso diretto nella seconda) e i versi centrali di Erano cento tornino alla stessa altezza metrica. E ricompare il tema – un violento chiaroscuro di innocenza dichiarata e ammissione di colpa:
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia il petto nel cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c'è.
"Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni". (II, 737)
Lo shakespeariano "fantasmi immondi" è rimpiazzato da un "gente sommersa" che rimanda subito al contesto concentrazionario, spazzando via l'obliquità della citazione (anche se pure "sommersa" rimandava, in origine, a Dante: ma è la letterarietà di Levi). Il senso autobiografico che era ancora sfocato in Erano cento si fa aperto, l'evocazione si è trasformata, dopo quarant'anni dagli eventi, in un urlo, e l'io del poeta si prende il centro della scena, a discapito dell'escalation di tensione narrativa in Erano cento. A ribadirlo, viene potenziato il consueto ricorso alla traduzione (i primi cinque versi traducono un passo della Ballata del vecchio marinaio) e alla citazione: la "mora greve" riecheggia la "grave mora" (cioè le pesanti pietre) sotto cui è sepolto lo scomunicato Manfredi nel Purgatorio, III, vv. 127-129. "E mangio e bevo e dormo e vesto panni" invece rimandanotoriamente a Inferno, XXXIII, v. 141, creando un parallelo fra il sopravvissuto ad Auschwitz e un altro morto senza pace al pari di Manfredi, cioè Branca Doria. In questo caso però, in un climax di colpevolezza, l'ultima citazione indica che il protagonista si sta equiparando a un traditore, un morto che cammina, ormai svuotato dell'anima ma ancora su questa terra[16]. Scarpa ha notato: "Levi, con un lapsus voluto, s'identifica con l'uomo-demonio che consuma una vita vicaria e dannata dopo aver spento proditoriamente la vita altrui" (Scarpa 1997, 253). Qui come nelle altre poesie del filone concentrazionario, la citazione non è uno strumento del manierismo, un'imitazione virtuosistica[17], ma svela una ricchezza di significati dall'accezione molto personale prima della formalizzazione compiuta nei Sommersi e i salvati: la vergogna insopprimibile di essere sopravvissuto a discapito di chi, forse, era migliore e per questo non è tornato. Paragonarsi a degli assassini (Branca Doria, Macbeth) o a dei responsabili di crimini irredimibili (il Vecchio Marinaio) mentre si pensa alla propria esperienza ad Auschwitz illustra perfettamente che citare diventa la chiave d'apertura dei pensieri più angosciosi e privati. Il rimando intertestuale nella scrittura in versi del secondo tempo è l'avvio di paragoni che è meglio non portare a compimento.
In Schiera bruna (1980) l'inizio di una tranquilla scena urbana (Levi descrive una fila di formiche sull'asfalto) apre a una ripresa fedele dal Purgatorio, XXVI, vv. 33-36, che a sua volta prepara a un parallelo strozzato, e perciò ribadito con forza ancora maggiore, fra il presente e Auschwitz. La poesia esaspera e approfondisce una sensazione espressa già in versi del 1973 dove la pesantezza di vivere era riferita indirettamente descrivendo un ritorno in macchina nel traffico notturno. Mi riferisco a Via Cigna, in cui i topoi del primo tempo leviano tornano tutti (la notte, l'oscurità, il grigiore: vi si legge l'inciso "Forse non esiste più il sole") e la domanda che il poeta si pone è: valeva la pena sopravvivere, per finire diviso fra lavoro, casa e traffico ("Forse era meglio spendere la vita / In una sola notte, come il fuco")? Tanto più se Auschwitz non sembra così un panorama così distante, ma torna in qualche modo nelle atmosfere e nella monotonia: il dittico "nebbia e notte" richiama, del resto, un breve documentario sul tema che Levi verosimilmente conosceva, cioè Notte e nebbia (Nuit et brouillard) del 1955 di Alain Resnais, distribuito in Italia nel 1960. In Schiera bruna il dantismo evoca idee che, a trentacinque anni di distanza dalla prigionia, è difficile sostenere mentre si passeggia per il centro di Torino:
Si potrebbe scegliere un percorso più assurdo?
In corso San Martino c'è un formicaio
A mezzo metro dai binari del tram,
E proprio sulla battuta della rotaia
Si dipana una lunga schiera bruna,
S'ammusa l'una con l'altra formica
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
Insomma, queste stupide sorelle
Ostinate lunatiche operose
Hanno scavato la loro città nella nostra,
Tracciato il loro binario sul nostro,
e vi corrono senza sospetto
Infaticabili dietro i loro tenui commerci
Senza curarsi di
Non lo voglio scrivere,
Non voglio scrivere di questa schiera,
Non voglio scrivere di nessuna schiera bruna.
Mentre precisa che non vuole scrivere di "nessuna schiera bruna", Levi esplicita il secondo termine di paragone, cioè quello a cui si riferisce invariabilmente quando richiama Dante: Auschwitz. Il parallelo ha, ambiguamente, una doppia referenza: le schiere brune potrebbero essere semplicemente quelle dei prigionieri, che lavorano senza curarsi di nulla – e confrontando il "loro binario" con quello dei suoi contemporanei Levi potrebbe suggerire che un superamento non si è ancora verificato. Ma c'è un'altra maniera di sviluppare la similitudine. Il carattere operoso e infaticabile dei "tenui commerci" delle formiche non si sposa bene al lavoro schiavile dei deportati; si adatta piuttosto a quello di altre persone di quel contesto, i lavoratori comuni e degli abitanti polacchi attorno al lager, che Levi nelle sue prose descrive come, alternativamente, ignari e complici del gigantesco esperimento sociale che si stava svolgendo ad Auschwitz. Paragonando le formiche ai lavoratori comuni, si capirebbe perché Levi si blocchi proprio su "Senza curarsi di": sta di fatto mettendo se stesso (e la comunità in cui vive) a confronto non dei prigionieri (come è consueto nella prima produzione), ma dei vicini "esterni" al lager. Nel ribadire il superamento colpevole di quell'esperienza, è portato a negarla con una frase spezzata – la preterizione è un procedimento raro nell'ambito di uno stile poetico dal periodo ordinatissimo, ma il finale ex abrupto non ha altri esempi. Nelle poesie del secondo tempo, emerge assieme alla vergogna di essere sopravvissuto anche una domanda gemella, che viene formulata in molti passaggi dei Sommersi e i salvati: Auschwitz è "un unicum, sia come mole sia come qualità", un'esperienza mai realizzata prima e che sembra non poter tornare tanto presto (II, 1154)? Oppure è un evento già successo e ripetibile (II, 1273-1275)? Levi non sembra mai propendere per una di queste tesi, ma inclina ora verso l'una ora verso l'altra. Nelle negazioni di Schiera bruna è tracciata una prima bozza della sua indecisione.
Per chiudere questa linea interpretativa, si può provare a prendere una poesia che apparentemente non ha nulla a che fare con il tema concentrazionario: La mosca. Contenuta negli Altri versi, è una delle ultime scritte da Levi in quanto è datata al 31 agosto 1986. Sono numerose le poesie a tema animale e vegetale, in prima o terza persona. Restando a quelle dopo il 1975: I gabbiani di Settimo, Cuore di legno, Aracne, Vecchia talpa, Un topo, Agave, Meleagrina, La chiocciola, L'elefante, Pio in Ad ora incerta; Dromedario negli Altri versi. Quasi tutte hanno almeno una di due caratteristiche. La prima è il tono didascalico: lo scopo principale è informare su cosa siano e cosa facciano le creature descritte, con un tono scientifico che riscatti la scarsa concretezza della letteratura. Le poesie "naturali" stanno in costante equilibrio fra identificazione (si fanno parlare creature non umane con un linguaggio estremamente chiaro e abbondanza di similitudini che le rendano accessibili alla comprensione del lettore: si ricordi che i primi destinatari sono i lettori della "Stampa") e straniamento (la concezione della natura in Levi è meccanicistica, come in Leopardi; nessuno dei suoi animali e piante ha emozioni "umane" né traccia di senso morale). La seconda caratteristica è il paragone autobiografico. Vale a dire che Levi si paragona, più o meno direttamente, agli esseri di cui scrive, magari perché crea un cortocircuito fra la sua immagine pubblica come uomo sotto le righe, incapace di far trapelare la sua parte emotiva e irrazionale (cf. Gordon 2004), e i suoi animali così distanti dalle costruzioni mentali dell'uomo, guidati inesorabilmente da una logica di riproduzione e morte che è descritta con accenti neutri; o magari perché sceglie le forme non umane per enfatizzarne le peculiarità "statiche".
Levi è morto nella casa dove è nato e ha vissuto quasi tutta la sua esistenza: a parte l'eccezione spaventosa dei sette anni 1938-1945 (dalle leggi razziali al ritorno a Torino), non ha avuto una vita granché movimentata. Nei suoi versi tornano ricorsivamente animali e piante che spiccano per l'immobilità, la capacità di rintanarsi al buio e aspettare con pazienza che passi la vita, l'autosufficienza completa (per dirne uno solo, l'albero di Una valle "non ha congeneri: feconda se stesso"). Verso la fine, le mimesi statiche assumono accenti perfino nichilisti (nel Dromedario l'animale dice di sé: "Il mio regno è la desolazione; / Non ha confini", II, 795). Poi c'è La mosca, eccezione che sembra contraddire in toto questo breve disegno della poesia di Levi. Qualcosa viene aggiunto alla descrizione etologica e qualcosa viene sottratto all'aspetto statico in cui l'autore, in teoria, dovrebbe rispecchiarsi:
Qui sono sola: questo
È un ospedale pulito.
Sono io la messaggera.
Per me non ci sono porte serrate:
Una finestra c'è sempre,
Una fessura, i buchi delle chiavi.
Cibo ne trovo in abbondanza,
Tralasciato dai troppo sazi
E da quelli che non mangiano più.
Traggo alimento
Anche dai farmaci gettati,
Poiché a me nulla nuoce,
Tutto mi nutre, rafforza e giova;
Materie nobili ed ignobili,
Sangue, sanie, cascami di cucina:
Trasformo tutto in energia di volo
Tanto preme il mio ufficio.
Io per ultima bacio le labbra
Arse dei moribondi e morituri.
Sono importante. Il mio sussurro
Monotono, noioso ed insensato
Ripete l'unico messaggio del mondo
A coloro che varcano la soglia.
Sono io la padrona qui:
La sola libera, sciolta e sana. (II, 794)
La protagonista è un animale in perpetuo movimento, che si nutre parassitariamente degli scarti (solo in questo, ricorda I gabbiani di Settimo), ma anche della vita altrui ("Sangue" e "sanie", cioè le secrezioni purulente che fuoriescono dalle ferite). È incapace di stare ferma, non aspetta e non è autosufficiente. Arriva ovunque, è "padrona" e ha a cuore solo una cosa: la sua sopravvivenza, che diventa un tutt'uno con la sua capacità di linguaggio. Se si prendono le pagine dei Sommersi e i salvati in cui si ricostruisce l'egoismo da sopravvivenza che dominava in lager, l'aneddoto sull'acqua bevuta da Levi e Alberto senza informare il compagno di prigionia Daniele rende persistente la colpa di chi ha pensato solo a se stesso provocando così dolore e sofferenze in altri: è una vergogna "concreta, pesante, perenne" (II, 1194), che trova una prima espressione nel simbolismo elementare della poesia del 1984 Fuga, in cui, come è stato notato dalla critica, un assetato senza nome tuffa le mani in un pozzo e contamina irrimediabilmente l'acqua di sangue (II, 736).
Nella Mosca, l'insetto che sopravvive e domina a discapito degli altri è mosso da un egoismo affine. Levi sceglie di non mettere l'accento sulla vergogna del conservare se stessi, bensì descrive la mosca come l'essere che trionfa, freddamente e senza rimorsi, su "moribondi e morituri" non abbastanza scaltri da sopravvivere, agevolato dalla mancanza di senso morale degli animali. È come se, per la prima volta, Levi prendesse personaggi come Alfred L. e Henri nel capitolo I sommersi e i salvati di Se questo è un uomo (I, 211-217), e rinunciasse a descriverli dall'esterno, secondo le sue categorie morali, per provare a incarnare nella mimesi animalistica, dall'interno, la loro "vita fredda di dominatore risoluto e senza gioia" (I, 213). Un'eccezione significativa, rispetto anche a poesie in cui Levi prova a mettersi nei panni dei tedeschi (in A giudizio, 1985, il tessitore Alex Zink riconosce "qualche volta, in sogno, / Ho udito gemere fantasmi dolenti", II, 789): nella Mosca Levi non ragiona sulla "zona grigia" da saggista, ma prova a raccontarla come orizzonte conoscitivo di un essere che vi è immerso e metaforicamente condensa un comportamento umano.
4. Conclusioni
Al di là dei singoli affondi testuali, che potrebbero essere ampliati e inseriti in un commento integrale, la poesia di Levi ha una sua fisionomia riconoscibile e una sua storia nel tempo, spezzata in due tempi che a loro volta contengono più spunti di quanti ne dica qualunque sintesi di poche pagine. Va considerata come un'opera complessa e non come un insieme di campioni per spunti biografici e puntelli di preparazione alla prosa: il che non vuol dire che la prosa (inclusi i saggi, le interviste e i dialoghi scolastici) non ci possa aiutare a decifrare o apprezzare meglio certi passaggi dei versi. In realtà, grazie al suo aspetto piano e semplice, di comunicabilità estrema, accade talvolta che nodi, contraddizioni e cambiamenti del suo pensiero traspaiano in poesia con maggiore evidenza che nella prosa: quello dello slittamento da "potenziale sommerso" a superstite senza redenzione, che ho cercato di delineare da Buna alla Mosca, è solo uno dei percorsi di studio possibili all'interno del corpus. I versi di quarant'anni restituiscono un poeta tridimensionale, più vasto degli spunti civici e tematici per i quali spesso finisce per essere letto – più scrittore (capace di scrivere in modi, approcci e sensi disparati e originali a partire dalla sua biografia, che include anche il lager) che testimone (cioè soltanto relatore straordinario di un'esperienza storica diventata – opportunamente – uno spartiacque della storia novecentesca). Talvolta il carattere d'occasione o parenetico (come in Dies irae, Per Adolf Eichmann, Canto dei morti invano, Delega, Pasqua, 2000, Partigia), che trasforma i contenuti etici della prosa in appelli della prosa, incentiva un approccio complessivamente scolastico. Ma c'è tanto altro, se si accetta di fare un tentativo: rinunciare temporaneamente ad alcune delle sovrastrutture storiche, pedagogiche e documentarie che sono fondamentali per trasmettere lezioni etiche e conoscenze interdisciplinari alle nuove generazioni, ma a volte, all'inizio della sua parabola di scrittore e forse ancora oggi, hanno reso difficile cogliere il valore della sua pagina: che non è riducibile a un messaggio.
How to cite | Come citare: Marchese, Lorenzo (2019), "Un'introduzione alla poesia di Primo Levi." In lettere aperte vol. 6, 25-44. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-62019/417]
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