Documenti, tracce, relitti dall'antropocene: Glossopetrae di Simona Menicocci
Il presente contributo propone una lettura di Glossopetrae di Simona Menicocci (2017) riservando particolare attenzione ai rapporti fra il testo e alcune specifiche declinazioni dell'idea di traccia/testimonianza, un'area semantica di indubbio rilievo in relazione alla poesia contemporanea e non solo. Questa recente raccolta poetica – che potrebbe considerarsi come un unico poemetto – risulta infatti portavoce di un'alta tensione etica e linguistica che emerge tanto su un piano tematico, con espliciti riferimenti alla contingenza storica attuale, quanto su quello propriamente formale, inducendo dunque il lettore a interrogarsi sulla specificità del discorso poetico in quanto intrinsecamente sovraindividuale. | This essay aims to propose an interpretation of Simona Menicocci's Glossopetrae (2017) by focusing on the relations between the text and some specific declinations of the idea of trace or testimony, that is a particularly relevant semantic area on the perspective of contemporary poetry criticism. This recent poetry book, which could be considered as a single long poem, seems to reflect a deep ethical and linguistic tension emerging both on a thematic level (through explicit connections with contemporary age, for instance exploring the debate around ecology and Anthropocene) and on a stylistic level. This type of writing would invite the reader to ask himself for which reasons and in which way poetical discourse could reveal an inherently transindividual power. | |
A partire, almeno, dal celebre assunto adorniano sull'impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, molto è stato ipotizzato intorno al valore testimoniale della poesia contemporanea. E tuttavia nel 1992 appariva ancora lecito domandarsi, come fece Jean-Marie Gleize, témoin de quoi? - di che cosa è testimone, se testimone può considerarsi, l'abisso semantico ed esistenziale scavato dal discorso poetico?
Non è forse un caso che una delle opere più notevoli dell'oggettivismo americano, composta da Charles Reznikoff e tradotta in francese da Jacques Roubaud, si intitoli Témoignage e presenti la trascrizione in versi delle testimonianze rilasciate nei tribunali americani fra il 1885 e il 1890.
Risulta di per sé evidente che l'atto del testimoniare implichi sempre una precisa scelta di poetica, una delimitazione del campo, un'aderenza alla nudité intégrale del dato percettivo che chiede conto della propria tangibilità materiale e che, cooptato all'interno dell'opera, diviene object spécifique, restìo alla figuratività e alla sublimazione metaforica. Una prima risposta (a se stesso e agli ipotetici lettori) è lo stesso Gleize a fornirla:
La testimonianza, è la scrittura stessa, che è registrata, firmata, pronta per la stampa, pubblicata. (...) Essere "testimone del proprio tempo" (...) non può che significare una cosa: essere radicalmente presente a eventi, movimenti, atti, operazioni che impegnano [l'artista] e nelle quali egli s'impegna nel momento in cui intraprende la scrittura. (Gleize 1992, 155)
Gleize rimarca inoltre la relazione necessaria fra testimonianza e realismo, quest'ultimo inteso in senso decisamente anti-mimetico e anti-ideologico, poiché è proprio del linguaggio poetico il rifiuto di paradigmi univoci semplificanti che avanzerebbero la pretesa di "tradurre" verbalmente il reale. Al contrario, la poesia ricerca di continuo l'enigma del reale per scontrarvisi e addentrarvisi "a mani nude", priva di ipotesi risolutorie: l'atto testimoniale di cui si fa portatrice è attivo in quanto resistente, "resiste alle parole", per dirla con Francis Ponge (cf. Gleize 1992, 143), attraverso una lotta serrata agli stereotipi e agli automatismi, alle strategie comunicative di tutte le lingue in certa misura egemoni, alla progressiva perdita di complessità imposta da una società ipercapitalistica che riconosce valore soltanto allo scambio. La pratica poetica verrebbe così a caratterizzarsi come "deliberatamente sovversiva", "anarchica" e dunque "terrorista per definizione".
Le tesi sostenute da Gleize sulla poesia come testimonianza potrebbero integrarsi con le riflessioni di Philippe Lacoue-Labarthe intorno alla categoria di esperienza. Per quest'ultimo l'atto poetico andrebbe infatti inteso come vera e propria "interruzione della mimesis" (Lacoue-Labarthe 1999, 99), in virtù della quale alla rappresentazione si sostituirebbe la percezione pura; di conseguenza, i riferimenti diretti all'esperienza individuale di un soggetto circoscritto passano nettamente in secondo piano rispetto a una più ampia concezione dell'esperienza come singolarità che, riprendendo etimologicamente il significato del verbo experiri, ʻattraversa il pericoloʼ dell'incontro con il reale e ne affronta le antinomie (ibid., 128).
Tanto Gleize quanto Lacoue-Labarthe si adoperano dunque a restituire al discorso poetico la tensione conoscitiva propria dell'"enunciato di realtà" – più tardi Jonathan Culler parlerà di discorso epidittico accostando ancora una volta il genere lirico a quello giudiziario (cf. Culler 2015) – nonché un valore sovraindividuale che ben poco ha a che vedere con il retaggio post-romantico del ʻsoggetto liricoʼ e che richiederebbe, piuttosto, ulteriori approfondimenti in senso fenomenologico e pragmatico. Se si applicano rilievi teorici di questo tipo al panorama poetico degli ultimi due decenni sarà poi indispensabile considerare l'ulteriore cambio di paradigma epistemologico ed estetico segnato dall'avvento dell'era digitale e post-mediale. Appare infatti con sempre maggiore chiarezza che le condizioni di sopravvivenza della poesia sono indissolubilmente legate alla sua capacità di farsi interprete della storia senza omologarsi alla logica imperante dello storytelling, bensì opponendovi un pensiero alternativo, consapevolmente residuale, un pensiero che accoglie l'opacità dei significati per disfarsi di continuo e ricostruirsi a partire dallo scarto.
Sembrerebbe infatti che proprio la specifica declinazione dell'elemento testimoniale all'interno di raccolte di poesia recenti riveli una doppia esigenza: se da un lato emergono con grande frequenza i riferimenti, il più possibile ʻdirettiʼ e ʻoggettiviʼ, alla realtà storica contemporanea, dall'altro la poesia non esita a rivendicare un proprio campo d'azione specifico che comprende la ricerca linguistica e formale, la complessità delle strutture di significazione, l'apertura verso forme artistiche ibride che esplorano i codici dell'intermedialità.
In questo senso una raccolta come Glossopetrae di Simona Menicocci, pubblicata nel 2017 per Ikonalìber all'interno della collana "Syn – scritture di ricerca", offre un'ampia varietà di spunti di riflessione riguardo ai rapporti fra poesia contemporanea e scrittura come testimonianza/documento storico/traccia esperienziale collettiva. L'attenta operazione di storiografia critica intrapresa dall'autrice trova un primo, centrale, parallelo semantico nella stratigrafia, pratica sviluppatasi in ambito geologico che consiste nello studio dei sedimenti rocciosi e di altri materiali stratificati da un punto di vista dell'origine, della composizione e dei rapporti cronologici reciproci. La tecnica stratigrafica è stata poi presa in prestito dall'archeologia acquisendo il significato di scienza orientata alla ricostruzione della storia degli strati archeologici e alla definizione di forma, concatenamento, divisione e successione dei suddetti strati. Nella specifica declinazione adottata dall'autrice, qui l'archeologia sarà anche certamente da intendersi, in senso foucaultiano, come un'analisi delle "pratiche discorsive nella misura in cui rendono possibile un sapere, e in cui questo sapere assume lo statuto e il ruolo della scienza" (Foucault 1969-2013, 217)
vid.1. Lettura di Simona Menicocci alla Mediateca di San Lazzaro [collegamento esterno]
Le "pietre di lingua" del titolo – tratto dal nome dato nel medioevo ai denti di squalo fossili – sembrano proprio attestare questa consapevole oscillazione/compenetrazione fra geologia e archeologia, elemento naturale ed elemento antropico, natura e cultura che sono spesso difficilmente distinguibili l'una dall'altra in quanto livellate incessantemente da agenti eterogenei, trasformate in magma o palta, appiattite secondo le leggi di un'orizzontalità radicale. E tuttavia la stratigrafia impone che l'orizzontalità dei livelli del terreno, capace di occultare miliardi di detriti millenari, venga sconquassata da un movimento verticale, di scavo in profondità. La traccia viene così sottratta alla cancellazione e riportata in superficie, diviene relitto sottratto all'oblio e, come ogni relitto, esige di essere interrogata: conserva in sé una memoria del mondo che è memoria di tutti e che non sempre siamo pronti ad ascoltare.
La componente testimoniale agisce quindi in primis su di un piano tematico dal momento che la scelta dell'area semantica principale denota una precisa volontà di documentazione, prelievo e riabilitazione di elementi residuali che rischiano di andare irrimediabilmente perduti. Le glossopetrae sono prima di ogni definizione dei frammenti ibridi, di materia e di linguaggio, inseriti all'interno di uno pseudo-poemetto che risulta straordinariamente organico per coesione tematica e per scelte lessicali, con la costruzione di una complessa rete di occorrenze e rimandi interni che percorrono a più riprese e in sensi differenti un'unica direttrice primaria. La vocazione enciclopedica dell'opera non esclude, anzi definisce e corrobora, l'aderenza all'oggetto del documento.
Il poemetto, che si presenta come costituito da una serie di blocchi di versi di lunghezza estremamente variabile, si apre con un tentativo di circoscrivere attraverso frammenti verbali e lampi percettivi lo spazio semantico in cui ci troviamo:
ogni azione umana (quasi)
o ogni evento naturale (quasi)
in un sito una traccia che si sovrappone
a esempi
l'accumulo lo scavo la costruzione il deposito
il crollo
fuori o intorno
scarto gettato
un fossato scavato
la costruzione del muro del suo crollo
il deposito di fango lasciato a un'alluvione
mentre ha una consistenza fisica
la traccia di asporto
la superficie di ʻtaglioʼ immateriale
lasciata dallo scavo del fossato o dalla rottura (p. 9)
Sin dai primi due versi è evidente il parallelismo – che è anche un confronto serrato – fra mondo umano e mondo naturale, fra "azione" ed "evento". Altro dato che richiama presto l'attenzione è l'alta frequenza di indicatori spaziali di vario tipo: in pochi versi troviamo "sito", "traccia" ripetuto due volte, "superficie", "fossato". Altrettanto evidente è la dialettica fra vuoti e pieni, concavità e convessità, operazioni di "scavo", "scarto", "asporto" e "taglio" integrate sistematicamente da movimenti contrari di sovrapposizione, "costruzione" e "deposito". Il territorio di riferimento è sempre quello del lessico settoriale tecnico-scientifico che sembra conferire, letteralmente, una "consistenza fisica" alla pagina; le lingue tecniche in generale si rivelano infatti particolarmente adatte a restituire la parola poetica alla sua littéralité allontanandola in definitiva dagli eccessi retorici e figurativi che l'utilizzo di un linguaggio non denotativo potrebbe comportare.
A ben vedere, questi primi sintagmi materico-linguistici rifuggono anche la tradizionale categoria artistica dell'autenticità: si tratta di objets trouvés, lacerti di discorso prelevati da altre fonti, decontestualizzati, tagliati e rimontati all'interno del testo. In questo caso la fonte principale sembrerebbe essere nientemeno che la voce di Wikipedia sulla stratigrafia in ambito archeologico[1]; lo spazio virtuale di approfondimento e condivisione di contenuti (ovviamente ipercontemporaneo) si pone quindi in contrasto critico-ironico con l'oggetto in apparenza ʻanacronisticoʼ del discorso. Per sondare più in profondità l'operazione di cut-up allestita da Menicocci, si veda a titolo d'esempio questo brano tratto dall'enciclopedia online:[2]
Ogni azione umana o ogni evento naturale, ha lasciato in un sito una traccia che si sovrappone alla situazione preesistente e costituisce una "unità stratigrafica" (U.S.)
Esempi di queste azioni o eventi possono essere l'accumulo di immondizia gettata al di fuori del villaggio, un fossato scavato intorno alle mura della città, la costruzione del muro di una casa, il suo crollo, il deposito di fango lasciato da un'alluvione, ecc.
A seconda che siano effetto di un evento naturale o di un'azione umana, le unità stratigrafiche si possono intanto suddividere in "naturali" (deposito alluvionale, crollo del muro) e "artificiali" (deposito di immondizia, costruzione di un muro, scavo di un fossato).
Confrontando l'estratto con il testo poetico possiamo notare che l'autrice ha prelevato frammenti in gran parte nominali ma sovvertendo nel contempo la logica razional-ipotattica degli enunciati di partenza: nei primi versi non compare una proposizione principale, la paratassi e l'asindeto sono condotti alle estreme conseguenze di azzeramento dei rapporti differenziali fra le parole, i verbi sono soltanto nominati ("azioni" o "eventi") e, se affiorano in superficie, hanno un valore non più che relativo, sono destituiti dalla consueta funzione egemone. Il "quasi" autoriale, posto fra parentesi, iterato e giustapposto ai due lessemi emblematici, introduce un ulteriore elemento di instabilità e indecidibilità nel flusso del discorso.
L'afasia dello strato detritico sembra pertanto segnalare che spesso le concatenazioni fra i fatti che si sono succeduti in millenni di storia non seguono un andamento lineare né tantomeno le loro conseguenze, il più delle volte non prevedibili. Il raggio d'azione di ciascun individuo è sempre finito, limitato a una prospettiva personale e a precise intenzioni che sono destinate a scontrarsi con innumerevoli altre intenzioni di segno uguale e contrario. Il tempo incombe sulla "costruzione" prospettandone l'imminente "crollo", un altro strato si sovrapporrà a quello precedente senza che tra i due vi sia alcun nesso causale poiché l'entropia della materia presuppone che le uniche relazioni inequivocabili fra gli enti siano "relazioni fisiche" e le relazioni fisiche sono sempre "pericolose", ovvero non controllabili (p.10).
Poco più avanti si prova a ricostruire una fenomenologia del sedimento storico-naturale attraverso l'utilizzo di formule, elenchi, tabelle che illustrano processi chimici o meccanici, passaggi di stato. Un altro prelievo diretto da Wikipedia è l'elenco puntato a p.10 che nella fonte originale è intitolato "schema della formazione delle unità stratigrafiche" mentre nel testo "schema" è sostituito con "schermo" e le lettere dell'alfabeto latino che marcano l'elenco sono sostituite con lettere del greco antico:
schermo della formazione:
α) situazione di partenza ()
β) azione di asporto: scavo di due ( ) ( )
γ) azioni di accumulo: muri, civiltà, crepacci
δ) evento del crollo degli accumuli elencati e
relativi linguaggi / economie
ε) deposito o lento accumulo di materiale portato
da vento o tempeste o progressi
Lo "schema" è "schermo" in un'accezione duplice: da una parte permette di visualizzare un dato sistema concettuale, di organizzare i dati in display orientandone la percezione e la ricezione; d'altra parte, nasconde il caos percettivo intrinseco al sistema stesso, ne occulta le altre letture possibili, fornisce al lettore-spettatore uno strumento illusionistico di controllo nei confronti di quanto si sta vedendo. L'utilizzo costante di segni grafici, indici, configurazioni tipografiche marcate allude poi a un ulteriore livello di significazione sul quale agisce la componente testimoniale-documentaristica, vale a dire il piano visivo e dunque intermediale.
Il documento, oltre ad essere inquadrato entro un'area semantica definita, è ricondotto al proprio statuto originario di traccia grafica che emerge dalla pagina bianca, macchia di inchiostro che diventa sintomo di una resistenza alla perdita. Se "lo scavo comporta la distruzione dell'oggetto osservato" (p.15) sarà allora indispensabile conservarne perlomeno delle minime "impronte" (p.14), custodirne un'immagine (non in senso figurativo) che sia il più possibile fedele a ciò che è stato e che non può più rivivere all'interno di uno sguardo non mediato ("quello che rimane da vedere è esposto", p.18). "Un segno" può diventare però "qualcosa di più della sopravvivenza", pertanto una ferma volontà di recupero di quanto rischia di scomparire non può essere scissa dall'esigenza di nominazione: è importante analizzare le crepe del terreno, contribuire all'anabasi di "ossa, denti, uova, conchiglie", "foglie, tronchi, pollini; evidenze" (p.25) e ancora "dita, unghie, gomiti, mani, spalle, gambe" (p.27), "fibre di vestiti", tutto ciò che "si deposita ovunque" e che viene ritenuto "insignificante perché potrebbe significare" (p.29).
Le immagini evocate dall'autrice tramite questa lingua minimale, scarnificata, asciutta, sono puramente presentative, così come le parole poste in relazione a esse per descriverle, vale a dire che parole e immagini hanno valore in loro stesse e non dipendono dalla tradizionale corrispondenza biunivoca fra rappresentante e rappresentato. È sempre il testo a esplicitare l'adozione di una prospettiva di questo tipo:
le parole
hanno anche un valore presentativo
sintomi, segnali, simboli
passano
di mano in mano
(quasi a dire
non essendo coinvolti in un'assimilazione fisica
della banconota o della moneta
(sono indici
forme il cui valore si delinea a partire da ciò cui
sono agganciate
il loro funzionamento è relativamente indifferente
alla materia
non dovendola né mangiare né fumare
per poter diventare sfruttabile (p.37)
Nel 1879 Mallarmé scriveva in Crise de vers:
Narrer, enseigner, même décrire, cela va et encore qu'à chacun suffirait peut-être pour échanger la pensée humaine, de prendre ou de mettre dans la main d'autrui en silence une pièce de monnaie, l'emploi élémentaire du discours dessert l'universel reportage dont, la littérature exceptée, participe tout entre les genres d'écrits contemporains. (Mallarmé 1897, 250)
Se è la scrittura poetica stessa a manifestarsi come atto gratuito per definizione, oggi per Menicocci la com-presenza priva di finalità di oggetti, corpi, materiali, residui di eventi dimenticati, diviene attestazione di resistenza all'economia del ʻrealismo capitalistaʼ, che insegue il ʻfunzionaleʼ senza avere coscienza della ricchezza esistenziale soggetta ogni giorno alla rapida erosione impostale da una società mercificata. Hans Ulrich Gumbrecht connette la "produzione di presenza" agli effetti estetici di un'opera, letteraria e non solo, che non possono essere veicolati dai soli significati, ovvero prova a precisare i termini dell'impatto che le "cose del mondo" esercitano sulla sensibilità umana (cf. Gumbrecht 2004, 1-18). Superando i paradigmi dualistici di stampo cartesiano che separano nettamente soggetto e oggetto della percezione, Gumbrecht aveva proposto una ricezione psico-fisica dell'opera che tenesse conto della componente sensoria insita nei significanti e nella comunicazione in generale. Ebbene un discorso poetico come quello accolto in questi testi pare muoversi in direzione di una riappropriazione di tale materialità mediante la riabilitazione della "traccia" di parola come soggetto-oggetto che rivendica il proprio essere inutile.
Il susseguirsi delle immagini-presentificazioni riemerse grazie all'operazione stratigrafica conduce poi all'altro fondamentale piano di significazione di Glossopetrae che è quello che riguarda più da vicino la lingua e le lingue, i rapporti reciproci fra linguaggi egemoni e linguaggi minoritari o in via di sparizione, nonché gli irriducibili paradossi che giacciono al fondo del linguaggio verbale in quanto modalità privilegiata di espressione umana. Questo ulteriore livello, che è tematico e linguistico al tempo stesso, coincide con una vera e propria pratica di salvataggio in extremis di tutte le "cose in situazione critica" o "definitivamente in pericolo" e cioè di tutte quelle parole che a causa di fenomeni di marginalizzazione o disuso rischiano di scomparire inesorabilmente dal patrimonio culturale della civiltà che le ha prodotte e dell'umanità tutta. Si parte da una premessa argomentativa:
la lingua (che tutto chiude e salva):
— permette un collegamento permanente
— realizza la continuità
— presuppone un apporto personale (p.17)
La lingua viene quindi inquadrata entro la dicotomia saussuriana fra "continuità"/langue e "apporto personale"/parole ma, se la tensione costante fra questi due poli è quella che ha sempre consentito il "collegamento permanente" senza rinunciare all'espressione individuale, di ben altra natura sono quei processi socio-politici che sembrano ignorare l'interesse collettivo nella conservazione di linguaggi stratificati e diversificati. Anche gli strati linguistici sono infatti soggetti alla legge della sovrapposizione per cui, all'interno di una complessa rete di fenomeni di "coesistenza, competizione, scomparsa", ciascun nome nuovo tende a scalzare il precedente relegandolo in una zona di progressiva dimenticanza. Per opporsi all'ineluttabilità di questo ʻdarwinismo linguisticoʼ l'autrice sceglie di riportare nel testo lunghi elenchi di parole in via di estinzione tratte dall' Atlas of the World's Languages in Danger dell'UNESCO.
Se si osserva ad esempio il lungo elenco collocato fra p. 29 e p. 32 è possibile constatare un'improvvisa pausa straniante nella lettura. I precedenti nuclei testuali, pur nella loro frammentarietà ed eterogeneità, seguivano un certo andamento ritmico percussivo, coadiuvato dall'utilizzo di enunciati brevi di tipo pragmatico-descrittivo e dall'ampia prevalenza dell'indicativo presente ("si stende sul suolo/ si deposita ovunque (si usa/ viene asportato/si arrende/ perché non è evidente"). Al contrario, l'introduzione di questi elenchi nominali di lessemi appartenenti a lingue per lo più minoritarie allestiscono all'interno dello spazio testuale un ulteriore microspazio di riflessione metatestuale che sarebbe da considerarsi più installativo che letterario in senso stretto. La Verfremdung si estrinseca nell'atto di porre chi legge di fronte alla non-leggibilità del testo, che è anche la non-leggibilità del reale e non può che renderci ancora una volta coscienti della finitezza di ciascun individuo. La perdita di una lingua richiama infatti, in senso humboldtiano, la perdita di una particolare espressione del nostro rapporto con il mondo.
In Glossopetrae il problema linguistico è quindi intimamente connesso con quello della temporalità e precisamente del tempo umano come segmento infinitesimale di un tempo cosmico, che è insieme "cerchio, linea, curva" (p.34). Le parole infatti, nella loro inevitabile coazione all'obsolescenza, "lasciano il tempo che non hanno" (p.33), riconsegnano l'uomo al proprio destino di creatura effimera, indifferente rispetto al corso dei macroeventi geologici e tuttavia non privo di ingenti responsabilità, nella misura in cui il corso di una singola esistenza può prevedere.
Analogamente, la fenomenologia delle evoluzioni linguistiche – spesso inafferrabili e parzialmente falsificate fra "revival" e "rivitalizzazione", "ʻresurrezioneʼ di una lingua morta" e "ʻrimessa in funzioneʼ di una in via di declino" – risulta essere parte di un'altra fenomenologia di gran lunga più vasta, quella che regola i rapporti fra civiltà, popolazioni, nazioni. Simona Menicocci arriva a condensare questi processi in una formula matematica (p.35):
La scelta stessa di elaborare una formula di questo tipo potrebbe celare una profonda ironia: si tratta infatti di coinvolgere entità e processi di portata tanto vasta da risultare assai difficilmente quantificabili. Tra i fattori di sviluppo di una determinata civiltà è necessario infatti includere tutto quanto concerne le "economie" e le "ideologie", che influiscono in modo significativo sulla sua capacità di resistenza alla storia e in generale sulla sua possibilità di nutrire delle speranze di sopravvivenza. In questo, e non soltanto, il sistema neocapitalistico non è innocente: il "tempo" è diventato sempre meno scindibile dal "denaro" e le logiche di scambio con l'accumulo di capitali sempre maggiori da parte di poche potenze iperindustrializzate a scapito di altre hanno condotto allo sfruttamento privo di controllo delle aree più economicamente deboli e culturalmente marginalizzate.[3] Allo stesso tempo chi vive nei paesi occidentali sembra non rendersi conto della grande ingiustizia collettiva sulla quale si fonda l'esistenza delle singole ʻbolleʼ di benessere individuale che fino a circa un decennio fa sembravano non scalfibili. A questo proposito l'autrice intende lanciare un monito chiaro, nuovamente introdotto da una struttura tipografica visivamente marcata rispetto alle altre. L'operazione di "scavo" corrisponde a una forte sollecitazione a "unire cause a conseguenze" a partire da una tabella (p.36):
Dalla tabella emerge una progressiva transizione dal piano storico e linguistico a quello più esplicitamente politico e sociale: non è più possibile ignorare parole come "tratta", "sottomissione", "distruzioni", "dipendenze", e anzi il fatto stesso che siano stati elaborati dei segni per serbare "memoria" di queste catastrofi tutte umane – nelle cause e negli effetti – dovrebbe indurre un'attenzione costante alle proprie azioni e alle proprie reali posizioni rispetto a ciò che accade.
In questo senso si ha l'impressione che la ʻvoceʼ autoriale riservi anche all'epoca contemporanea un trattamento alla stregua di quello adottato per analizzare un qualunque strato geologico-archeologico consegnatoci dalla storia. Avvalendosi di una forma di distanza tanto ironica quanto tragica che ricorda quella delle leopardiane Operette morali, Menicocci sembra guardare all'umanità come postuma; presente e passato si confondono ormai nell'orizzontalità indistinta della traccia e del detrito, complice il carattere metastorico degli istinti di sopraffazione reciproca e del ʻmaleʼ antropologico, ma anche la percezione, tutta duemillesca e anzi attualissima, di essere giunti alla fine di qualcosa. Non stupisce che si parli adesso di "calcolo tempo rimanente" (p.49) e di "decomposizione iniziata" (p.50): queste schegge di linguaggio assumono con graduale definizione le sembianze di relitti dell'antropocene, in una prospettiva post-umana.
Il termine ʻantropoceneʼ, coniato negli anni Settanta e diffusosi in seguito soprattutto ad opera del biologo Eugene F.Stroermer e del chimico Paul Crutzen[4] indicherebbe l'era geologica attuale, caratterizzata da un sempre maggiore impatto delle attività svolte dall'homo sapiens sugli equilibri terrestri. Fenomeni come il cambiamento climatico e il progressivo esaurimento delle risorse in seguito a uno sfruttamento incondizionato segnano però il profilarsi di un'emergenza ecologica di fronte alla quale, considerandone i recentissimi sviluppi, non è più accettabile restare indifferenti. Oggi si può affermare, come scrive Antonio Allegra, che più di qualcuno abbia incominciato a cogliere una tale esigenza di ridefinizione antropologica:
L'antropocene è sia egemone che, fortunatamente, tramontante. [...] È proprio perché l'antropocene tramonta che siamo in grado di riconoscerlo e nominarlo. È solo quando un'egemonia tramonta che essa diventa riconoscibile come tale, perché la sua presa inizia ad affievolirsi. (Allegra 2019, 7)
Il pensiero postumano (evitando di soffermarci in questa sede sulle sue articolazioni interne) postula infatti un superamento già parzialmente in atto dell'homo sapiens a partire dall'abolizione radicale dell'antropocentrismo e dal mito che da secoli l'individuo umano coltiva di se stesso in quanto artefice assoluto, prescelto dall'evoluzione naturale, delle sorti proprie e della superficie terrestre tutta. Per Leonardo Caffo il postumanesimo contemporaneo andrebbe già inteso come intrinsecamente "performativo" ovvero negli ultimi due decenni si sarebbero manifestati i primi sintomi pratici di una svolta in senso postumanistico: nella più condivisa attenzione all'ecologia, nella diffusione di un pensiero anti-specista e di stili di vita vegetariani o vegani, nonché nell' "individuazione di 'terzi paesaggi' dove ricostruire nuove forme di produzione della vita" (Caffo 2019, 81). Conseguenza diretta di ciò è che l'homo sapiens, per Caffo, debba ormai considerarsi come "fossile". Riuscirà a sopravvivere soltanto se sarà in grado di attivare una metamorfosi radicale, innescando una vera e propria speciazione verso nuove forme di vita.
Collocando il testo in un contesto teorico ideale di questo tipo, è possibile gettare ulteriore luce sui possibili sensi dell'operazione stratigrafico-enciclopedica condotta da Menicocci: il capitalismo è ormai giunto alla propria prevedibile autofagocitazione e, se la specie umana intende salvarsi da se stessa attraverso un rinnovamento collettivo che sia realistico, sarà indispensabile partire da una riarticolazione della propria posizione nel mondo, interrogare le rovine lasciate da una storia violenta e irragionevole, scrutare, ispezionare a fondo il passato per provare a rintracciarvi un'altra storia possibile, uno sviluppo alternativo che sia sostenibile eticamente.
Se si continua a percorrere il flusso verbale della raccolta ci si renderà conto che la registrazione icnologica – dal greco ichnos (traccia) e logos (discorso) – dettagliata viene gradualmente portata alle sue estreme conseguenze, per cui tanto la descrizione dei sedimenti all'interno di ciascuno strato quanto l'analisi delle tecniche di scavo plasmano una rete di iterazioni e microvariazioni sul tema che a tratti si avviluppano in loro stesse, a tratti contribuiscono a dislocare il lettore in un ambiente semirituale nel quale riecheggiano brandelli di conoscenza. Troviamo, ancora, la descrizione delle tipologie di unità stratigrafiche, contratta in una dialettica tellurica che alterna "superficie" e "profondità", "costruzione" e "distruzione", "positivo" e "negativo":
poi anche la profondità ha delle superfici
la fotografia così come il disegno
α) la superficie positiva
informa sul periodo di vita di una vita
e sul tempo occorrente per ricoprire
quella sottostante
β) la superficie negativa
è definita interfaccia di distruzione
o superficie in sé
e rappresenta sempre un'azione
che non ha una consistenza materiale
perché rappresenta una distruzione dell'esistente (p.58)
E tuttavia questo è uno degli ultimi luoghi della raccolta in cui è possibile rinvenire una separazione netta fra due poli oppositivi, in senso fisico e ontologico. Più che approdare a una vera e propria sintesi, sarà la conformazione stessa dello strato a determinare, nel tempo, una indistinzione sempre più radicale fra naturale e antropico, fino a smarrire i contorni originari degli enti individuati in vista di un definitivo superamento dei dualismi:
la notte è per via della terra
o la somiglianza
cioè il processo primo che unisce
le cose divise
nei luoghi
non c'è nulla che riconduca a nulla
altri spazi
dover-essere/dove-stare
a guardare
lo scomporsi basta un legame (p.60)
All'improvviso la "notte" della "terra" confonde ogni cosa, sopraggiunge il buio della non-possibilità e nulla sembra più essere conoscibile se non attraverso un'inaspettata "somiglianza" fra un essere umano e l'altro e fra ciascun essere umano e le cose da cui è circondato, un "legame" che presuppone "altri spazi", un mutamento di prospettiva, una meditazione che abbatta i confini e l'habitus acquisito.
Questa progressiva abolizione dei confini fra detrito naturale e resto antropico fa pensare all'idea di iperogetto elaborata da Timothy Morton, secondo il cui "pensiero ecologico", in linea con il realismo speculativo e l'object-oriented ontology, esisterebbe una profonda interconnessione fra tutti gli esseri viventi e non viventi, pienamente dimostrata dal fatto che tutti i processi fisici, chimici e biologici, tutte le azioni umane e non umane, implicano di necessità un contatto fra enti soltanto in apparenza distinti e che questo contatto trascende le categorie spazio-temporali entro le quali siamo abituati a pensare (Morton 2018a e 2018b). Da un tale superamento della specificità ontologica scaturirebbero gli iperoggetti, entità viscose e non-locali, diffuse e multidimensionali, "interoggettive" in quanto, anche se ogni oggetto può potenzialmente essere un iperoggetto, essi prevedono un rizoma di relazioni fra più di un oggetto. Per Morton in un'epoca di forte crisi ecologica come quella attuale la presenza degli iperoggetti rappresenterebbe la sconfitta irreversibile delle certezze percettive e cognitive dell' homo sapiens: basti pensare, ad esempio, che di un iperoggetto come il surriscaldamento globale riusciamo a percepire alcuni effetti e indizi, ma non siamo capaci di scorgerne fino in fondo la portata poiché il fenomeno agisce a prescindere dalla nostra volontà e nel contempo ʻservendosiʼ di essa.
Potremmo forse interpretare le tracce sedimentate di Glossopetrae come sintomi di iperoggetti, impronte mnestiche che riportano a un ʻfondoʼ inconoscibile del reale. Questo rivendica la propria irriducibilità ai sistemi logico-razionali umani e si espone allo sguardo di chi non si arrende all'evidenza dello strato più visibile e dunque si inoltra nella ricerca di altre superfici sotto la prima superficie, altri luoghi sotto il non-luogo.
Nonostante la messa in dubbio delle possibilità di comprensione e di conoscenza degli individui, il dato particolarmente originale che emerge dal testo è la resistenza di un movimento attivo che si rivela con vigore nell'ultima parte della raccolta, dove gli "strumenti ermeneutici" sono interamente volti a liberarsi dalle censure dei poteri egemoni e della storia ufficiale, a indagare "soprattutto ciò che viene rimosso", "la norma e la possibilità di effrazione della traccia", la "storia delle erosioni" e la "comunicazione inavvertita" fra una traccia e il ritardo con il quale è stato possibile rinvenirla (pp.61-62). Appare rilevante, in particolare, il passaggio da una prevalenza dell'indicativo presente – in senso, come si diceva, pragmatico, descrittivo o epidittico – a quella degli infiniti presenti con valore regolativo se non addirittura imperativo. Il riferimento va a espressioni come: "conoscere il noto/per disconoscere il noto", "ricominciare da zero" (p.64), "scavare nella direzione da cui la distruzione/ avanza" (p.68), "dare una mano alle mani fuori uso e non lasciarsi/ ingannare dai numeri" (p.70), "a ogni azione umana/ far corrispondere una attenta contrarietà" (p.71), "calibrare lo scarto" (p.79).
La frequenza di enunciati di questo tipo legittimerebbe una loro lettura in termini di prassi finalizzata a costruire la rivoluzione antropologica auspicata dal testo: ʻche fareʼ per imprimere finalmente una svolta al presente?
La proposta della voce autoriale sembra muoversi in direzione di una ridefinizione di quelli che Peter Sloterdijk chiama meccanismi antropogenici, ovvero quei processi che hanno condotto alla creazione di un luogo dell'umano, e delle relative antropo-tecniche, intese come le tecniche "ascetiche" (basate sull'esercizio e sull'abitudine spesso inconscia) connese all'auto-produzione dell'uomo da parte dell'uomo, in senso marxiano (cf. Sloterdijk 2010, 136). Per poter ripensare il proprio ruolo nel mondo e la responsabilità etica delle proprie azioni in relazione all'ambiente di cui si è parte diventa imprescindibile documentarsi, atto che assume un carattere duplice: esso consiste di certo nel movimento proiettato fuori dal sé di scavo attraverso eventi e oggetti altri, sconosciuti o spesso occultati, per risalire l'ingiusto corso della storia e serbare memoria del dolore del mondo; ma documentarsi comprende anche una riflessione introflessa/introspettiva, un farsi-documento interrogando se stessi sulle proprie azioni e sulle proprie sofferenze, su cosa resta del "fossile" di ieri nell'uomo di oggi, su quanto è ancora possibile recuperare, salvare, consegnare allo strato successivo che un giorno – neppure così lontano – si sovrapporrà a quello che oggi abitiamo.
L'idea della sovrapposizione reciproca fra uomini a civiltà viene ripresa a p.70 nel calembour paronomastico "homo homini humus", il quale potrebbe avere, a sua volta, un'interpretazione contraddittoria: da una parte l'uomo è terreno da calpestare per i propri discendenti, che lo schiacciano e gli si sostituiscono, dall'altra i grandi esempi del passato sono visti come nutrimento, linfa vitale per i posteri (la vecchia massima dell'ʻhistoria magistra vitaeʼ: ma siamo sicuri che sia davvero così?)[5]. Poco dopo sarà la volta di un'altra celebre massima sul ruolo della tradizione, quella attribuita a Bernardo di Chartres, che verrà però sistematicamente rovesciata e problematizzata:
noi siamo come nani sulle spalle di giganti (colluvie), e (non) possiamo vedere più cose e più lontano, nonostante siamo sollevati e innalzati dalla loro gigantesca grandezza. (p.75)
La storia, insomma, "non è magistra di niente che ci riguardi", e anzi restare cristallizzati nell'ossequio a forme di pensiero ormai anacronistiche è una delle maggiori cause di cecità rispetto alle emergenze ambientali che caratterizzano il nostro tempo così come rispetto alle complesse dinamiche economiche che soltanto un certo grado di industrializzazione e capitalizzazione ha reso immaginabili. La perlustrazione capillare delle "tracce" sul terreno ha rivelato, al contrario, che anche i ciottoli in apparenza più levigati non sono esenti da impurità, imperfezioni di varia origine, e allo stesso modo persino quei paradigmi conoscitivi che apparivano inamovibili si sono irrimediabilmente incrinati – e se ne prospetta l'imminente crollo.
In senso contrario, la raccolta si conclude con una serie di nuclei testuali che ruotano attorno al motivo della "perdita di informazioni" (p.79): si arriva a toccare il limite dell'operazione stratigrafica quando si prende coscienza del "degrado" inarrestabile sancito dal trascorrere delle ere, di tutto "quanto non rimane in traccia nel terreno", fino a dichiarare la propria resa rispetto all'"impossibilità di una registrazione totale" (ibidem), e che anzi "nello scavo ideale si arriva alla distruzione totale" (p.81). Non restano che degli ultimi appelli, in minore, per preservare il frammento infinitesimale di conoscenza al quale si può ancora aspirare:
conoscere o comprendere per grossi tagli
ogni apporto presuppone un asporto
la speranza è che non tutto sia servito (p.80)
per una comprensione totale
è necessario abituarsi
a un certo tipo di distorsione prospettica
leggere all'inverso quanto è avvenuto: (p.82)
Si sviluppano poi una serie di allegorie legate all'idea di scarto o di oggetto minimo, che tuttavia sono alla base di diverse azioni fondatrici di civiltà: il riparo provvisorio, l'atto di accendere fuochi o scavare buche, lo spazio vuoto da riempire; in ogni caso, "si osservano solo scarsi elementi, scarti", vale a dire "materiali minuti: terriccio, polvere, piccoli frammenti di rifiuto" (p.83). Di fronte a questa riabilitazione dell'impercettibile, l'invito che il soggetto dell'enunciazione muove a se stesso e a chi legge è quello a "fare attenzione al resto inesatto", "ringraziare il morfema quotidiano" (p.84), "raccontare la differenza" e infine "imparare a memoria tutte le cose in disuso" (p.85).
Si avverte a questo punto come un'urgenza di azzeramento del ʻdisturboʼ percettivo nonché delle abitudini cognitive pregresse, un livellamento finale del terreno che possa permettere il ritorno a un'auscultazione autentica della natura e degli eventi, della terra e dell'uomo. La lenta ricostruzione dell'umano sembra dover incominciare dalla nudità della traccia, dal suo essere inevitabilmente letterale e allegorica a un tempo.
Glossopetrae si conclude con un estremo enunciato pseudo-imperativo: "ricostruire le fasi (a, b, c)/ che hanno portato/ alla situazione attuale (n)" (p.86). Segue un elenco puntato (a., b., c., d.) le cui voci sono vuote e infine la dicitura "situazione attuale" seguita dai due punti e da una pagina bianca. L'ultimo appello è dunque quello di provare a pensare il proprio tempo – lo stato e lo strato attuali – con una presa di distanza preliminare, ovvero applicando quelle categorie di analisi che l'esercizio paziente dell'operazione stratigrafica ha consentito di rinnovare, al fine di rilevare dei dati il più possibile ʻoggettiviʼ. Il tentativo di descrizione del presente e della particolare congiuntura di concause che lo hanno prodotto è destinato però a scontrarsi con l'afasia della pagina bianca, vale a dire con l'impossibilità di affermare qualcosa che sia incontrovertibile su un tempo in fieri, il tempo del qui e dell'ora. D'altra parte, la pagina bianca circoscrive una porzione di spazio all'interno del testo e insieme ne denota un'apertura radicale: l'ultimo invito al lettore è quello a interagire con il testo, a riempire il vuoto grafico con la propria esperienza e la propria azione nel mondo al di fuori del testo.
Possiamo a questo punto affermare che un ulteriore definitivo livello di significazione al quale questo testo allude è quello epistemologico: l'intera operazione macrotestuale di scavo e rilievo a partire dalla traccia minima – sulla superficie linguistica e fisica – si configura come un esercizio cosciente di straniamento al quale consegue una approfondita meditazione sul reale. Si tratta di riarticolare le proprie dinamiche percettive, il proprio essere-nel-mondo e abitare il mondo, dopo aver attraversato l'impasse di una catabasi dentro le scorie del passato, del presente e di tutti i futuri possibili. La lingua poetica di Simona Menicocci, nelle singole scelte stilistiche e in una visione d'insieme, apre a un salto cognitivo sul vuoto di una storia che non riusciamo mai a comprendere appieno in tutti i suoi risvolti e che pure balena di continuo di fronte ai nostri occhi. Per continuare a esistere è importante imparare a decifrarne gli indizi, a leggere la traccia che scalfisce il suolo.
How to cite | Come citare: Ciaco, Marilina (2019), "Documenti, tracce, relitti dall'antropocene: Glossopetrae di Simona Menicocci." In lettere aperte vol. 6, 59-73. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-62019/414]
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Si segnalano i seguenti testi (sebbene non citati esplicitamente nell'articolo) per ulteriori approfondimenti teorici riguardanti alcune pratiche testuali proprie della "poesia di ricerca" contemporanea:
Ghidinelli, Stefano (2013), L'interazione poetica. Modi e forme della testualità della poesia italiana contemporanea. Napoli: Guida.
Giovannetti, Paolo (2017), La poesia italiana degli anni Duemila. Roma: Carocci.
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Permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-62019/414