L’autonomizzazione del campo letterario italiano nel primo Novecento: i dintorni della «Voce»
L’avanguardia fiorentina
Nel mio intervento ricostruirò le condizioni che hanno reso possibile la genesi di un polo autonomo nel campo letterario italiano di inizio Novecento grazie all’azione di alcune avanguardie – vale a dire, seguendo la risemantizzazione del termine operata da Bourdieu (1992), grazie a un’alleanza di nuovi entranti cementata dall’intento di sovvertire i valori letterari vigenti. Mi occuperò in particolare delle relazioni che si intessono intorno ad alcune riviste fondate a Firenze: il «Leonardo» (1903-7) diretto da Giovanni Papini e scritto in buona parte da quest’ultimo e Giuseppe Prezzolini; «la Voce» (1908-14) diretta da Prezzolini, alla quale collaborano quasi tutti gli innovatori dei diversi campi intellettuali di inizio secolo; infine «Lacerba» (1913-15), gestita da Papini e Ardengo Soffici, in cui si cementa l’alleanza tra una costola dell’avanguardia fiorentina e l’avanguardia milanese dei futuristi capitanati da Filippo Tomaso Marinetti.
Per indicare gli intellettuali che scrivono e si riconoscono in queste riviste ho scelto di adottare la formula, già sperimentata da Adamson (1993), di “avanguardia fiorentina”, sia per contrapporre l’azione di questa avanguardia a quella che si coagula a Milano intorno a Marinetti, sia per evitare l’uso di etichette essenzialiste come quelle adottate dalla storiografia letteraria per designare questo raggruppamento di autori (“espressionismo”, “frammentismo”, ecc.). Vedremo infatti come l’azione di questa – come di tutte le avanguardie – sia definita più dal desiderio di opporsi a qualcosa che dalla condivisione di princìpi comuni.
La nascita dell’«intellettuale»
Il risultato storico dell’azione delle avanguardie italiane di inizio secolo è la costituzione di una serie di funzioni, posizioni e posture intellettuali che ritroveremo per buona parte del Novecento: in primis, quella stessa di “intellettuale”. Il termine si era specializzato in Francia negli anni Novanta, e più precisamente nel corso dell’affaire Dreyfus, per indicare un fenomeno nuovo:
l’intervento pubblico di una serie di “professionisti della manipolazione dei beni simbolici”, che, trascendendo le attività specifiche in cui erano impegnati, si presentavano (ed erano percepiti) come un’entità collettiva, rivendicando la propria autonomia dal potere politico e il diritto di esprimersi sulle più gravi questioni del momento; e ciò, non tanto in nome delle rispettive competenze tecniche, ma di valori universali, dei quali si dichiaravano esponenti e mediatori.
(Pertici 1996, 309)
Se Charle (1990), seguito da Bourdieu (1992), ha individuato nell’affaire Dreyfuss il momento in cui il processo di “nascita dell’intellettuale” approda a un punto di non ritorno, Pertici (1996) ha ipotizzato che per l’Italia questo momento coincida con l’affaire Prezzolini: quando cioè, in difesa del direttore della «Voce» condannato nel 1911 per diffamazione, più di duemila intellettuali firmano una lettera di protesta scritta da Giovanni Amendola. Di numero in numero «La Voce» pubblica i nomi dei firmatari: «giornalisti e scrittori, artisti e professori, uomini politici d’opposizione e studenti spesso di grande avvenire, esponenti di riviste locali, in pratica tutta la nuova cultura italiana» (Pertici 1996, 346).
Ma cosa significa, in termini strutturali, l’apparizione della figura dell’intellettuale?
L’intellectuel se constitue comme tel en intervenant dans le champ politique au nom de l’autonomie et des valeurs spécifiques d’un champ de production culturelle parvenu à un haut degré d’indépendance à l’égard des pouvoirs […] il s’affirme, contre les lois spécifiques de la politique, celles de la Real politik et de la raison d’état, comme le défenseur de principes universels qui ne sont que le produit de l’universalisation des principes spécifiques de son univers propre.
(Bourdieu 1992, 186-87)
Secondo Bourdieu, dunque, presupposto fondamentale per la nascita dell’intellettuale è l’autonomizzazione dei campi culturali: l’istituzione, cioè, al loro interno, di uno spazio dove vigono regole e norme irriducibili a logiche esterne. Quando si parla di autonomia, dunque, non bisogna pensare alla chiusura di scrittori e artisti in una “torre d’avorio” separata dalla società: al contrario, l’interventismo e l’impegno che caratterizzano tante carriere intellettuali novecentesche sono una conseguenza diretta dell’autonomia raggiunta dai campi in cui si trovano a operare. Se, infatti, l’autorevolezza dell’intellettuale è garantita dal prestigio acquisito nel proprio campo, questo prestigio deriva a sua volta dal riconoscimento, come uniche norme della produzione culturale, dei princìpi stabiliti dagli intellettuali stessi contro le interferenze della politica, della religione, della morale o dell’economia.
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